“Sono tutti così”, disse lei, senza meravigliarsi. “Pazzi dalla nascita”.
da “Cent’anni di solitudine”, G. G. Marquez
Non so se mai avesse visto “Attila” con Diego Abatatuono o qualche episodio del divertentissimo prodotto di Hanna & Barbera “Napo Orso Capo”. Sta di fatto che quella massa infinita di ricci e biondi capelli, Carlos Alberto Valderrama Palacio (classe 1961) se l’è portata addietro per tutta la vita. Ogni volta che si parla di questo grande centrocampista colombiano si pensa sempre a quella specie di parrucca zampillante a mò di palma dorata che con catenine e bracciali caratterizzava la sua prestazione in campo, un po’ come i Kiss con il loro trucco. Nato da padre calciatore, il giovane Carlos inizia a giocare nelle file dell’Union Magdalena dove si distinse per i suoi dribbling e i suoi assist killer. E per uno comportamento non proprio da San Raffaele visto che viene arrestato a 20 anni per aggressione a pubblico ufficiale. I pochi giorni scontati in carcere lo caricano come un carillon turbo e torna in campo sempre più motivato a farsi notare dal grande pubblico della Colombia, pubblico caldo che nulla risparmia. Il bel gioco è d’obbligo e la vincita il suo vero attributo. Valderrama non vince nulla con El Ciclon Bananero, come chiamano i tifosi la propria squadra rosso-blu ma viene notato da diverse formazioni che si contendono Riccioli d’Oro. Dopo un anno così e così con i rivali del Millonarios, nel 1985 passa al Deportivo Cali in cui rimane per un paio di anni, giocando a livelli altissimi e segnando ben 22 reti, cosa rara per un centrocampista.
Con il compagno di gioco Redin, sotto la guida di Popovic, forma una ottima ossatura nel centrocampo biancoverde e diventa l’idolo della tifoseria. Applausi e giubilo confermati anche con l’esperienza in nazionale per la Coppa America ’87 in Argentina, dove la Colombia si classifica al terzo posto, battendo 2-1 l’Argentina di Maradona. E proprio uno che ha fatto la storia dell’Argentina, il ct Menotti (che vinse il mondiale Argentina ’78) dice di lui “Conosce la posizione dei suoi compagni senza neppure vederli”. L’ottima prestazione in Argentina convince la Francia ad adottare il suo gioco in patria. E’ infatti il Montpellier il primo club europeo di Carlos che si trova a giocare un calcio totalmente diverso, meno spumeggiante e più tattico di quello sudamericano. Assieme ad ottimi giocatori quali Blanc e Cantona, Valderrama vince il suo primo trofeo importante, la Coppa di Francia ‘90 dopo aver vinto 2-1 contro il RC Paris. Non giocherà la finale ma darà un ottimo contributo ai francesi in quella competizione. L’esperienza francese dura un paio d’anni e le prestazioni di Carlos sono un sali e scendi. Molti gli rimproverano il fatto di essere molto fumo e poco arrosto, di basare la sua personalità solo sull’estetica, sull’eleganza del tocco e dei dribbling ma poco concreto quando si presenta davanti all’area avversaria. Sta di fatto che il ct Marturana lo convoca per i Mondiali di Italia ’90.
Sono 28 anni, da Cile ’62 nel quale la Colombia non accede ad una competizione mondiale. Valderrama è stavolta sugli occhi del mondo intero. Ed assieme ad un’altra personalità pazza, il portiere Higuita con la sua mossa a scorpione, tinteggia la sua nazionale di arcobaleno. La Colombia è bella da vedere, pimpante e frizzante, con tocchi alla brasiliana. Non a caso la squadra di Valderrama supera il girone D dopo la vittoria per 2-0 (con gol di Carlos) contro gli Emirati Arabi e il pareggio incredibile per 1-1 contro la futura vincitrice del torneo, la Germania Ovest di Klinsmann, Brehme e Mattahus. Gli ottavi di finale vedeno i colombiani contro la sorpresa Camerun e proprio due reti del grande Milla ai supplementari consentono agli africani di accedere ai quarti. Carlos e soci escono comunque a testa alta e il Gullit Biondo, come lo chiamano i giornali italiani, trova approdo in Spagna, sotto le file del Real Valladolid. E’ l’ultima stagione passata in Europa, Valderrama non riesce ad abituarsi a quel calcio tattico da scacchi e preferisce ritornare in Colombia dove nel giro di un anno, il 1992, passa dall’Inpendiente Medellin ai rojiblancos del Junior. Qui torna a vincere, conquistando meritatamente la Copa Mustang (il campionato colombiano) nel 1993 e nel 1995.
Fra i due successi un altro terzo posto in Copa America nella competizione di Ecuador ’93 ma soprattutto il suo secondo mondiale, quello di USA ’94.
Dopo aver schiacciato clamorosamente 5-0 l’Argentina nel durante le qualificazioni per il mondiale americano, Valderrama, reduce da un brutto infortunio avuto pochi mesi prima, si ritrova ancora sotto i riflettori mondiali. Qui la sua nazionale però esce malamente ed il gioco, seppur pronosticato in modo positivo da gente del calibro di Pelè o Cruijff, è lontano dall’energia di Italia ’90, pur con l’ottimo innesto di Asprilla. Nel girone G alla prima gara perde 3-1 contro la Romania di uno scatenato Raducioiu ed esce sconfitta anche 2-1 contro i padroni di casa, gli Stati Uniti. A nulla vale la vittoria 2-0 contro la Svizzera, la Colombia è già fuori e il futuro della squadra subirà un episodio tragico. Proprio nella gara che costerà il passaggio agli ottavi, quella contro gli USA, il difensore colombiano Escobar, a causa di un suo autogol, verrà prima minacciato e poi ucciso a colpi di pistola dal narcotraffico colombiano il 2 luglio dello stesso anno, pochissimi giorni dopo l’uscita dal mondiale. Durante gli spari c’è chi giura di aver sentito l’assassino urlare “Grazie per l’autogol”.
Valderrama e compagni sono scossi dall’evento, affrontano la Coppa America del ’95 in Uruguay non col piglio giusto, arrivando ancora al terzo posto, dopo il 4-1 contro gli Stati Uniti. Decide di lasciare il paese per pochi anni, va negli USA a vestire la curiosa maglia dell’appena nata Tampa Bay Mutiny dove vince il premio MVP come miglior giocatore del campionato nordamericano. Dal 1996 in poi un continuo avanti indietro fra Stati Uniti e Colombia fino al suo terzo mondiale, quello di Francia ’98, il secondo consecutivo in cui Valderrama uscirà al primo turno perdendo ancora con la Romania già incontrata quattro anni prima e l’Inghilterra di Beckham. “Eravamo un’ottima squadra, per questo abbiamo giocato 3 mondiali” dirà Carlos in una intervista. Ed ha ragione. Nel 2002 la sua ultima partita da calciatore nel club americano del Colorado Rapids.
Lo scrittore Galeano ne parlò come un “giocatore dai piedi storti, adatti però a nascondere il pallone agli avversari”. C’è chi lo considera un piccolo genio, chi un giocatore come tanti altri nella storia ma se risulta al 39° posto nella classifica IFFHS dei migliori giocatori del XX secolo un motivo ci sarà. Nel 2007 i suoi riccioli d’oro hanno ancora colorato i giornali dopo un episodio dubbio di corruzione nei confronti dell’arbitro Ruiz durante una gara del Junior, squadra nella quale ha avuto il ruolo di manager, sventolando 50 mila pesos al vento. Carriera lunga e varia no? Proprio come i suoi milioni di riccioli a fungo che riflettevano l’attenzione del pubblico tutta su di loro.
Ma oltre alla bionda parrucca c’è stato altro, c’è stato un grande campione. El Pibe, come lo chiamavano in Colombia. Si, la Pepita. La pepita sul morbido testone da Napo.