Su di un corpo sferico inerme scacciava i coyote famelici, sudati dal troppo vagar senza meta e scopo e ci si avventava con un dribbling di piume. Emilio Butragueno Santos, classe 1963 lui che di carcasse ne ha divorate tante, dentro e fuori l’area di rigore, dentro e fuori il Santiago Bernabeu, con o senza la maglia bianca delle Merengues, del Real Madrid. In tutte le presenze disputate con i Blancos lui il becco appuntito ce lo ha messo un centinaio di volte e non si nascondeva fra le ali, come il dorato angioletto della Waste Land di Eliot, anzi le apriva e si mostrava feroce in volto ma candido nella presa della preda fra gli artigli, tanto che il portiere danese Hogh si starà ancora ubriacando per dimenticare quei quattro gol rifilati dal Buitre stesso con la nazionale spagnola alla sua Danimarca nei mondiali ’86 (nella foto, Emilio esulta baciato dal sole messicano di quel 18 luglio). A Madrid era lui il toro, non il torero. “El toro solo corazon arriba”, diceva Lorca, “il toro solo col cuore in alto”, preparandosi all’incornata fra la difesa avversaria e la porta dai pali rossi che solo lui adocchiava, sbuffando e scalciando con Sanchez e Martin Vazquez e con tutta la sua Quinta che passava la palla fra le gambe altrui mentre la bolgia dello stadio stava prima a guardare e poi ad esultare.
“Hombre, El Buitre de nuevo!”, qualche spettatore spagnolo lo avrà certamente urlato vedendo la sua squadra mangiata dal Real, sputando semi di zucca per terra, come cowboys col tabacco, di fronte ad un contadino spolpato da un avvoltoio. Ben lo sanno i tifosi della nostra Inter che per due anni di fila (’85-’86) si sono visti sfumare la finale di Coppa Uefa perdendo in semifinale proprio con i Blancos. Due vittorie dell’Inter nelle due andate (2-0 e 3-1), quando c’era ancora un certo Spillo Altobelli e Rummenigge ma due sconfitte pesanti e decisive nei successivi ritorni (0-3 e 1-5 dts), per due anni di fila, della serie “sbagliando si impara. Sì, come no”. Formazione devastante guidata da allenatori alterni fra cui spicca Molowny, una corazzata che farebbe rabbrividire anche le squadre del calcio presente, con giocatori del calibro di Camacho, Michel, Sanchez, Martin Vazquez e Valdano. Poi venne il grande Milan di Sacchi, quello del 5-0 nella semifinale di Coppa dei Campioni con il Real del ‘89, ma quella fu un’altra storia. Ben sei icampionati spagnoli vinti di cui cinque consecutivi (dal ’86 al ’90 e poi l’ultimo nel ’95), una Liga, quattro Supercoppe di Spagna, due Coppe di Spagna e due Coppe Uefa. L’avvoltoio si è fatto una bella scorpacciata nella sua carriera terminata all’Atletico Celaya, in Messico, nuovo altare sacrificante, nuovo ruolo da leader, el caballero blanco, questa volta da Pancho Villa del calcio che con cintura e sombrero ha deliziato lo sguardo da siesta dei chicos, fra cactus, peyote ed un hasta la vista. Silenzioso, immobile, nascosto fra il sole e la sua ombra come se fosse nel deserto del Greed di Eric Von Stroheim, planava sul campo come un aquilone, senza gravità, come un Nijinski dalle scarpette di ferro, con danza arcana e macabra, ricordando certe cose di Stravinskij.
E’ lui lo Zarptica, l’Uccello di Fuoco che faceva ballare lo stregone malvagio Kasej, o meglio i difensori avversari, fino allo sfinimento e alla resa. Da avversario in contropiede lo vedevi all’inizio come un semplice ragazzo di 25 anni per poi scorgerlo lontano, trasformato in un punto bianco imprendibile, proprio come un avvoltoio fra le nuvole. E quando segnava lo guardavi e basta, ti arrendevi al destino del calcio. Si perché con El Buitre non facevi altro che arrenderti di fronte alla sua velocità, se lo marcavi dovevi solo lasciarlo andare, come se fosse una poesia o una canzone, lasciarla scorrere nel grande ed immenso fiume del calcio, fino ad una vicina cascata, ad un gol di testa o di collo pieno da 16 metri. Abbandonato alla corrente d’acqua fino alla fine del fiume, al grande oceano, al momento in cui ogni giocatore decide ti attaccar scarpa al chiodo come è stato costretto a fare un giorno Butragueno, la cosiddetta fase delle lacrime e il lungo cammino fra quello che si è vissuto e la morte. Da quando nasciamo siamo fetenti, odoriamo di liquido amniotico, di vita e anche di dimenticanza una volta passati a miglior vita, sull’altra sponda del Lete. C’è chi sceglie l’arte, chi la musica, chi altre ed altre cose per rimanere nella storia. El Buitre ha scelto il calcio e nel suo ultimo giorno d’atleta il suo spirito si sarà lisciato le piume, avrà guardato il deserto per un ultima volta e poi sarà volato via verso sud, forse sulle Ande o in un altro mondo. “The birds have a harder life than we”, diceva Hemingway. Perché gli uccelli hanno una vita più dura della nostra.