Negli anni novanta (e primi 2000) il calcio internazionale equivaleva alle aspettative sessuali di un adolescente: assaggi un desiderio così lontano, giusto un boccone qua e là sognando un giorno di arrivare all’El Dorado. Tanti gli eroi, incompiuti come le notizie che riuscivamo a ottenere tramite highlights e le pagine del Guerin Sportivo, con il bravissimo Roberto Gotta a portarci con lui sui campi inglesi. Per chi ha trent’anni oggi rivedere le immagini di alcuni giocatori ha un sapore strano, è come rivedere la foto di quella ragazzina per la quale andavi matto alle medie e accorgerti che non era affatto un granché. Quello che vedevi in lei lo vedevi era un’esclusiva. Ma ti piaceva tanto. Potrebbero stare ore a spiegarmi perché i Ginola e i Le Tissier sono giocatori incompiuti, lo so da solo, grazie. Sono giocatori il cui mito, forse, oggi sarebbe annebbiato dal numero di telecamere pronte a carpire ogni (non) movimento nel corso della gara, youtube come cassa di risonanza, un bar sport planeatario a digerire il tutto con un ruttino social. Salute. Ditemi quel che volete, ma io ricordo Jay Jay Okocha. O meglio, mi sono accorto di ricordare Okocha rivedendolo attraverso lo schermo del computer. E’ cambiato lo schermo, io sono cambiato (in meglio?), lui però è rimasto lo stesso. La maglia numero dieci scevra da ogni responsabilità, sentirsi lo show e non parte di esso, mai schiavo del risultato ma solo del proprio estro. Dove basta una mossa, lui ne fa due, raddoppia tutto tralasciando solo il necessario. Repetita iuvant, quel Jay Jay che suona come una finta, il doppio nome (quello nigeriano e Muhammet Yavuz, ottenuto insieme alla cittadinaza turca), il doppio – e pure triplo – dribbling. Quello realizzato a Kahn nel 1993 non è un gol, è un manifesto.
Mi ricordo divertito nell’ossevare quell’inutile prodezza, ricordo il gusto barocco di quel gesto fine a ste stesso. Libertà assoluta di fare tutto e il contrario di tutto, solo perché “è bello”. Jay Jay è di etnia Igbo, gli ultimi a cedere alla dominazione inglese, gente che vuole fare come gli pare. Il Sissignore non ce l’ha proprio nelle corde, se Inghilterra deve essere, che sia lui a conquistarla. La Guerra civile come sfondo, la sua gente che si autoproclama Repubblica del Biafra, i suoi racconti conservano però il gusto ludico che ne fatto marchio di fabbrica. “Da quanto ricordo – giocavamo con qualsiasi cosa rotonda ci capitasse. Poi quando abbiamo avuto un pallone… Che meraviglia! E’ stato fantastico!”.
Ancora bambino, si trasferisce con la famiglia in Germania. Gli inizi nel Borussia Neunkirchen, poi il grande salto passando all’Eintracht Francoforte. Le Aquile rossonere, famiglia ideale per una Super Aquila nigeriana, nel 1994 arriva però Jupp Heynckes e il rapporto con il sergente di ferro non è semplice. Per vincere quanto ha vinto il tecnico di Mönchengladbach servono ordine e disciblina, Jay Jay non ne vuole sapere e lascia parlare il suo estro. In quell’anno però succede anche un’altra cosa: la Nigeria vince la Copa d’Africa e raggiunge per la prima volta la fase finale dei Mondiali. In quei mesi Elio e le Storie tese di divertivano a profetizzare una vittoria degli africani, a patto che Agbonavbare difenda la propria porta.
Ci sarebbe da spendere due paroline pure sulla storia del portiere, morto lo scorso gennaio, ma concentriamoci sul Mondiale a Stelle & Strisce. La Nigeria sorprende tutti, battendo Bulgaria e Grecia al primo turno e trovando l’Italia agli ottavi. Il gol di Amunicke e l’espulsione di Zola fanno ben sperare, il genio di Roberto Baggio cancella tutto. Okocha ha piedi deliziosi, ma lui la forza di caricarsi una squadra sulle spalle non l’hai mai avuta. Nel tiro secco dalla distanza avrebbe pure il colpo risolutivo per ammazzare ogni avversario, imprime alla palla una traiettoria a salire che è la più complicata per i portieri. Solo che non gli è mai fregato niente.
E’ già leggenda, è “The African Maradona”, e con una giravolta delle sue si lascia l’Eintracht retrocesso in cadetteria alle spalle per approdare il Turchia alla corte del Fenerbahçe. Periodo felicissimo sotto il profilo relizzativo, la casacca numero dieci non è una scelta, è natura. Vince la Atatürk Cup e la Chancellor Cup, due competizioni che nemmeno esistono più. In questo periodo arriva l’oro olimpico di Atlanta, sembra l’alba di una nuova era per il calcio africano ma tutto si è risolto in una bolla di sapone. Non c’è neppure più il ritornello “questo è il mondiale delle africane” da intonare ogni quattro anni, un’esplosione mai avvenuta che ricorda la parabola di Jay Jay.
Il numero dieci passa poi al Psg, dove incontra uno come lui: Ronaldinho. Il nigeriano conserva sulla schiena le due cifre che lo definiscono, il bimbo brasiliano gli ruba il mestiere per quanto cornerne finte a tutta velocità e dribbling stretto. E’ spesso capitato che intuizioni di alcuni autori trovassero poi perfetta applicazione del corpus filosofico di altri pensatori. Parigi è caos allo stato puro in quel periodo, con la gestione targata Canal + agli sgoccioli. Quattro stagioni e un paio di titoli, così tanto per gradire. Pochi i gol messi a segno da Okocha, appena dodici, una costante nella sua carriera se si esclude il periodo turco. Nel 2002 lo chiama Sir Alex Ferguson. Sì, proprio così, a 29 anni la chiamata della vita. Ma la storia di Jay Jay non è fatta per sbocciare, non aspettatevi colpi di scena se non nelle sotto trame che anima mulinando i piedi, non ci sarà alcuna gloria a Old Trafford per il nigeriano. Va al Bolton in comproprietà, club antico e con un palmares rachitico e polveroso. Non ce ne vogliano i tifosi del Wanderers, , c’è sempre chi sta peggio. Voi almeno qualcosa l’avete vinto, chi scrive prova un amore non corrisposto per il Fulham.
Jay Jay approda al Reebok Stadium – oggi Macron Stadium – in comproprietà, attendendo il riscatto che non arriverà mai. E’ il Deserto dei Tartari di Buzzati, la storia si snoda attorno a un’attesa sterile. Okocha però sa riempire il vuoto, i quattro anni a Bolton ne fanno re della città. Sempre pochi i gol, 18 complessivi in 124 apparizioni, ma il segno che lascia dal 2002 al 2006 è profondo, con tanto di fascia da capitano al braccio. La squadra non vince un tubo ma passa comunque anni sereni, con tanto di finale di League Cup e qualificazione in Coppa Uefa. La fama di Okocha è fuori controllo, la gente viene per lui e lui so, servendo sempre generose porzioni di superfluo. Oscar Wilde sarebbe fiero di lui. Nel 2003 è calciatore africano dell’anno, nel 2004 bissa e viene inserito dalla Fifa nel Top 100, il gruppo dei migliori calciatori viventi al momento. Un’orrida baracconata targata Fifa, con il placet di Pelè, ma andiamo oltre. Un riconoscimento a quello che poteva essere e non è stato, al puro gesto slegato dalle conseguenze. I Wanderers nel 2012 retrocedono e Okocha cambia aria, volando in Qatar non senza qualche polemica. Respinge l’offerta di contratto, molti parlano di un uomo cambiato negli ultimi mesi, lui di contro è seccato per la mancata crescita del club e lo dice senza mezze misure.
Un anno al Qatar SC per ringalluzzire l’estratto conto (ma si annoiava laggiù, dice), poi nuovamente la chiamata del calcio inglese. Firma con le Tigri dell’Hul City, Okocha però non ruggisce più anche a causa di problemi fisici. L’Hull conquista per la prima volta la Premier League, il numero dieci appende gli scarpini al chiodo. Momentaneamente. E’ notizia dello scorso mese il suo ritorno in campo a quasi 42 anni con la maglia del Wolverton Town, che milita in Spartan South Midland League. E’ sceso di parecchio nella piramide del calcio inglese, ma ce lo immaginiamo a calcare il campo con la stessa leggerezza mentale. Firmerà o no? Poco importa, il suo futuro è ancora incerto e, a quanto pare, potrebbe riservagli un ruolo al fianco di Oliseh alla guida della nazionale Nigeria. Jay Jay potrebbe fare da vice al compagno di mille battaglia in nazionale. Abbiamo aperto a suon di ricordi ma il futuro non aspetta e c’è già una nuova generazione di calciatori. Jay Jay si è complimentato con suo nipote Alex Iwobi per il gol messo a segno in Emirates Cup con la maglia dell’Arsenal. Bravo Alex, ma non bastano i gol a diventare leggenda. A Ogwashi Ukwu – poco più di 26 mila anime – c’è uno stadio che porta il nome di tuo zio, gliel’hanno intitolato mentre giocava ancora. Piedi che cantano, purtroppo nel 1994 anche Okocha ha avuto la pessima idea di cantare. Il pezzo è tremendo, riassume la parte brutta degli anni ’90 che tagliamo fuori dai pensieri nostalgici, ma conta il titolo. Ecco perché ti ricordo ancora così bene.
(il 14 agosto Jay Jay dribblerà 42 candeline. Auguri)