«Se non fossi diventato un cantante sarei stato un calciatore…o un rivoluzionario. Il calcio significa libertà, creatività, significa dare libero corso alla propria ispirazione». Se a pronunciare questa parole è stato Nesta Robert Marley c’è da convincersi, che il calcio, libero dalle tenaglie del “Dio Danaro”, come avrebbe detto Bob, nasconde ancora purezza. Ah sì, Nesta, perché, inizialmente, era questo il suo primo nome. «Ha un non so che di femminile», dissero alla madre che decise, quindi, di invertirlo con Robert. E’ una delle infinite storie attorno al simbolo leggendario della Giamaica e del reggae che, diluite nel tempo, si mescolano col mito. Le foto, e ce ne sono tante, però, documentano qualcosa di tangibile: la passione di Bob nel rincorrere un pallone. Il calcio o meglio il football: parola internazionale, riconoscimento multietnico e plurilinguistico di uno stesso sentimento. Così, viene spontaneo parlare di Marley alla vigilia della prossima Copa América che si disputerà in Cile: per la prima volta nella sua storia, infatti, ci sarà pure la Giamaica. Abbastanza insolito perché, assieme al Messico, le due nazioni hanno ricevuto un invito dal comitato organizzatore pur essendo della federazione calcistica dei Paesi dell’America Centrale, Settentrionale e Caraibi (Concacaf).
«Ricevuta la notizia dagli alberi sussurranti, questo è il momento in cui l’uomo deve essere liberato», cantava Bob in “Freedom time”. Scelti a sorpresa dopo i rifiuti di Giappone e Cina, i Reggae Boyz si ritroveranno dinanzi a colossi del fútbol. Nel gruppo B, infatti, le avversarie saranno Argentina, Paraguay e Uruguay. Macht d’esordio, ovviamente, subito contro i campioni in carica uruguaiani. Uno sbalzo non indifferente per una Nazionale che è alla seconda manifestazione internazionale degna di nota. La prima volta è quella indimenticabile: bisogna riavvolgere le lancette e arrivare nel 1998, al Mondiale in Francia, con le maglie abbondantemente larghe e gialle con tocchi di verde e nero quanto basta. E poi, le sconfitte contro la Croazia per 3-1 e contro l’Argentina per 5-0 e, infine, a Lione, la vittoria tanto insperata quanto magica: 2-1 contro il Giappone con la doppietta del nuovo eroe nazionale, Theodore “Tappa” Whitmore. Pacche sulle spalle e congratulazioni: i Reggae Boyz entrarono nel cuore degli appassionati e dei romantici pallonari.
«Da molti, un solo popolo» (Out of many one people) è il motto della piccola isola caraibica, punto di contatto tra diverse culture ed etnie. Ma pur sempre unita. Ora, passato e presente si incrociano: rivendicata dalla Spagna dopo il primo sbarco di Cristoforo Colombo nel 1494, la Giamaica è stata poi sotto il dominio britannico, diventando terra di produzione e di esportazione di zucchero. Terza nazione anglofona in America, la Giamaica ha ottenuto la sua indipendenza nel 1962, ma il cordone ombelicale è ancora lontano dall’essere tagliato. Staccarsi è difficile e Bob lo sa: suo padre, Noval Sinclair Marley, era un capitano della marina, giamaicano bianco di discendenza inglese che sposò una nera, Cedella Booker. E per il cantante, soprannominato “white boy” proprio per la sua origine, suo padre ha rispecchiato l’emblema della schiavitù: il bianco padrone che mette incinta una donna nera.
Il calcio, così, si dimostra cartina tornasole dei processi e delle evoluzioni culturali. Prendete la lista dei convocati della Nazionale giamaicana per la Copa América: su 23, otto giocano nel Regno Unito. Ragazzi nati in Inghilterra, ma spinti dal desiderio di scendere in campo ascoltando l’inno della loro lontana terra d’origine. Come Wes Morgan, 31enne difensore centrale del Leicester, 37 partite e due reti quest’anno in Premier League che ha seguito i passi dei suoi nonni giamaicani. Ma l’antico rapporto tra suddito e colonizzatore corre su un doppio binario: vi ricordate John Barnes, il primo giocatore nero acquistato dal Liverpool e famoso per aver colpito col tacco una banana lanciata da un tifoso razzista? Lui, naturalizzato inglese, nacque a Kingston, proprio come Raheem Sterling, il talentino dei Reds (non si sa per quanto ancora), nato nella capitale della Giamaica e poi emigrato assieme alla madre all’età di cinque anni. Durante gli ultimi Mondiali in Brasile ha giocato contro l’Italia con la maglia dell’Inghilterra. E sui campi britannici si ricordano altri due figli dei Caraibi: Lloyd Lindbergh “Lindy” Delapenha, nel 1948, fu il primo giamaicano a giocare in una squadra professionistica inglese, il Portsmouth, e Gil Heron, soprannominato la “freccia nera”, fu il primo giocatore di colore tra le file del Celtic.
«Se ci uniamo, saremo liberi» è il messaggio professato da Bob e che i Reggae Boyz probabilmente canticchieranno durante quest’avventura. Dopo la diaspora nel corso dei decenni, ora la clessidra si è capovolta: dagli Stati Uniti, dalla già citata Inghilterra, dalla Svezia e dalla Germania, i calciatori tornano a casa. Attualmente, infatti, solo il difensore Hughan Gray e gli attaccanti Allan Ottey e Dino Williams giocano in Giamaica. Tra gli “emigrati” c’è il portiere Ryan Thompson che nel luglio 2011 è diventato il primo giamaicano a giocare in Champions League (certo, era il terzo turno di qualificazione tra Shamrock Rovers e Copenhagen), oppure c’è il tedesco Daniel Gordon, difensore del Karlsruher, nato a Dortmund. A poco meno di 200 km di distanza, a Mayen, piccolissimo paese della Renania-Palatinato, è cresciuto, invece, Winfried Schäfer, da due anni commissario tecnico della Giamaica, autentico globetrotter dopo aver allenato la Thailandia, il Camerun e vari club negli Emirati Arabi Uniti.
E proprio la Germania è stata l’ultima nazione europea vista da Bob Marley. Era il settembre del 1980, quando si recò a Monaco per un ultimo, estremo e disperato consulto medico. Tre anni prima, infatti, gli diagnosticarono un melanoma maligno all’alluce destro, in verità mai curato in quanto la sua religione, il Rastafarianesimo, non consente l’amputazione degli arti per rispetto dell’integrità del corpo. Lo scoprì, per puro caso, giocando proprio a pallone: notando prima una ferita e poi, quando, dopo un contrasto, perse totalmente l’unghia dell’alluce. Bob morì l’11 maggio del 1981, fu sepolto vicino a Nine Mile, quel luogo dal quale Bob mai si separò e si portò con se una chitarra Gibson Les Paul, una piantina di marijuana, una bibbia ed un pallone: la sua esistenza racchiusa in quattro oggetti semplici.
Non sapremo come andrà a finire questa spedizione tutta giamaicana in terra cilena, però, la canzone c’è già. Scritta negli anni ’60 da Bunny Wailer, componente, assieme a Bob Marley, dei “The Wailers”, il testo dice più o meno: «C’è una terra, ne ho sentito parlare, lontana oltre il mare…e tutte le glorie, noi le avremo tutte». Il titolo, chissà profetico, è “Dreamland”.