Il calcio cinese rappresenta il prototipo del futuro, al quale anche l’Europa sta andando incontro, in quanto non è ancorato ad alcuna tradizione o cultura, bensì solamente alla forza dello yuan.
Speciale 50 anni dalla Rivoluzione Culturale
prima puntata: Il calcio prima della rivoluzione culturale (leggi qui)
seconda puntata: la filosofia sportiva da Mao a Xi Jinping (leggi qui)
UN CALCIO SENZA PASSATO….
Il mondo e l’economia del dragone sono completamente differenti rispetto al nostro occidente, anche nel calcio della Repubblica Popolare è fortissima l’influenza del Partito Comunista o dei governi locali, in quanto molte delle squadre della Chinese Super League sono di proprietà statale, come ad esempio l’Hebei Fortune di Lavezzi e Gervinho, o lo Shanghai Shenhua di Guarin. Le altre squadre appartengono a compagnie private, come il ben noto Guangzhou Evergrande o lo Jiangsu Suning, anche se spesso, in realtà meno blasonate di quelle citate, gli investimenti nel settore sportivo da parte dei vari gruppi aziendali hanno lo scopo di ottenere maggiori concessioni da parte dei governi locali.
E’ impossibile che il calcio europeo replichi il modello cinese, ma vi si sta avvicinando per un altro inquietante fattore, ovvero il distacco dalle proprie radici. Analizziamo i nomi delle squadre di calcio cinesi, che sono esattamente gli stessi delle aziende proprietarie: il Guangzhou Evergrande è il secondo fondo immobiliare delle Cina, mentre lo Shanghai SIPG è la più grande ditta portuale dell’est asiatico, in mano al 50% al governo locale. Tali scenari sono spesso aleatori, e non è raro assistere allo smantellamento di intere squadre o allo spostamento di un club da una città all’altra, o addirittura da una parte all’altra della Cina. L’ultimo dei molteplici esempi riguarda l’attuale Beijing Renhe in China League One, che fino all’anno scorso si trovava a Guizhou. Il Renhè Group è un fondo immobiliare specializzato nella costruzione di centri commerciali, e il proprietario, avendo avviato importanti lavori a Pechino ha deciso di spostare l’intera squadra dal sud della Cina fino alla capitale. A questo punto mettiamoci nei panni i un tifoso di Guizhou, che da un giorno all’altro si ritrova senza la sua squadra, o di un pechinese, che all’improvviso vede arrivare in città un’altra compagine calcistica.
Anche l’Europa pallonara non può dirsi esente da uno scenario nel quale il capitale prende il sopravvento sul passato. Si comincia con il “vendere” il nome degli stadi al maggior offerente, ad accettare una invasione degli sponsor in ogni dove, anche in quelle maglie, come quella blaugrana fiere della propria purezza. L’ultimo grande step è rappresentato dalle multinazionali che si accaparrano i club, come la Red Bull (in questi ultimi giorni in trattativa anche con l’Udinese) o il fondo del City Football Group (guarda a caso per il 13% cinese) protagonisti di un processo di pura omologazione. Come spiegato in questo articolo (leggi qui), la Red Bull ha acquistato club storici a partire dall’Austria Salisburgo, cambiandone denominazione, logo e colori sociali. Passo dopo passo, è l’Europa che si va più viCina.
…E UNA CINA SENZA PASSATO
Il calcio è un modo alternativo per studiare la società e la storia. Capire la Cina attraverso il calcio e viceversa. La Repubblica Popolare, non solo nello sport, sta perdendo la propria identità, in quanto incapace di fare i conti con il passato.
Pechino ricorda, in ritardo il 50mo anniversario della Rivoluzione Culturale Cinese. «La Risoluzione emessa dal Partito comunista cinese nel 1981 sulla catastrofe della Rivoluzione culturale del 1966 resta immutabilmente scientifica e autorevole». Il Quotidiano del Popolo ha finalmente rotto il silenzio imposto a Pechino su quel decennio atroce scatenato da Mao Zedong e in un articolo del 17 maggio ha ribadito il giudizio di condanna.
La Cina finalmente si appresta a rompere il tabù nei confronti del proprio passato, anche se il dialogo continua ad essere condotto dall’alto e il popolo ha una concezione molto limitata di quello che “è stato”. Il Partito Comunista non ha mai fatto i conti con la figura di Mao, ancora oggi considerato un’icona nella Cina moderna, che di collettivo ha ben poco.
Rimane di grande attualità l’intervista che Deng Xiaoping rilasciò a Oriana Fallaci negli anni ’80, così scriveva il Quotidiano del popolo: «il compagno Deng Xiaoping incontrò la giornalista italiana Oriana Fallaci e ha risposto con mente storica e aperta e con attitudine politica oggettiva ed esplicita alle domande circa il giudizio del Partito nei riguardi del compagno Mao Zedong e sulla Grande Rivoluzione culturale». Secondo Deng, «Mao aveva ragione al 70 per cento e torto al 30 per cento»: quel 30 per cento causò milioni di morti.
Come spiegato nella seconda puntata sullo speciale della Rivoluzione Culturale, delegittimare negli anni ’80 la figura di Mao Zedong, avrebbe inesorabilmente causato la caduta del Partito Comunista.
Con la conquista di Pechino nel 1949 da parte del Partito Comunista, la grande capitale del nord è mutata radicalmente. Tiziano Terzani, nel suo libro “La porta proibita”, scritto alla fine degli anni ’80, spiega come è mutata Pechino nel giro di quarant’anni, da luogo incantevole, limpido e pieno di cultura, a una città monotono grigia, nella quale gli antichi quartieri, i templi, le librerie e i mercati hanno lasciato il posto a casermoni dallo stile sovietico o a fabbriche, un processo che è stato accentuato notevolmente nei dieci anni di buio della Rivoluzione Culturale, dove il distacco dal proprio passato di tipo feudale e borghese, è stato netto. Il comunismo cinese ha livellato la collettività verso il basso, verso uno stato di povertà estrema.
Le cose sono radicalmente cambiate a partire dagli anni ’90, con la definitiva apertura al capitalismo e una crescita economica senza precedenti pari al 9% annuo del PIL. Il distacco dal proprio passato è stato ancora più netto, e ancora oggi si possono assistere scene tipiche dell’epoca maoista, dove il vecchio viene rastrellato, una volta per la costruzione di altiforni e fabbriche, oggi per grattacieli spesso vuoti o imponenti centri commerciali.
A parlarci della Cina degli anni ‘2000, del Secolo Cinese, è Federico Rampini, che descrive Pechino come una città ancora grigia e monotona, una brutta copia delle grandi megalopoli occidentali, le cui forme degli edifici sembrano disegnate da una mano stanca.
IL NEOCONFUCIANESIMO: SPERANZA O ILLUSIONE?
Nelle antiche dinastie cinesi, in particolar modo con i Tang (618-907 d.c.), i concetti del confucianesimo, quali armonia, Ren (umanità) e il rispetto delle tradizioni erano seguiti alla lettera. La società fioriva senza sosta sotto tutti i profili: scienze, cultura, espansione territoriale. La storia degli imperi cinesi ci insegna che, chi perde “la via” è destinato a collassare, ad essere rimpiazzato dopo un colpo di stato.
La Cina comunista deve svoltare, questo è un dato di fatto appurato per non rischiare di fare la stessa fine delle dinastie imperiali, magari non in quest’epoca, ma il futuro, oramai, è un processo “irreversibile”. I segnali per questa possibilità catastrofica sono già riscontrabili con l’edificazione di città fantasma le quali hanno generato una gravissima bolla speculativa la cui conseguenza è stata il crollo delle borse nel 2016.
Per cambiare è necessario regolamentare la crescita e ritrovare l’Armonia tanto decantata da Confucio nei suoi dialoghi… e da Xi Jinping. Dietro il volto autoritario e accentratore del presidente della Repubblica Popolare vi è perlomeno l’intenzione di riscoprire i dettami della filosofia confuciana e della millenaria cultura cinese, a partire proprio dalle scuole con un notevole ampliamento delle discipline umanistiche nell’orario di lezione. Un popolo incapace di scoprire le proprie radici è destinato a soccombere. In una Cina che sta rallentando la propria crescita, deve essere intrapresa la trasformazione economica e culturale prospettata dall’ultimo Piano Quinquennale.
Eppure questo “Ritorno a Confucio” può avere dei connotati ben diversi, a seconda dell’interpretazione che si vuol dare al concetto di pietà filiale. Ovvero il rispetto per le autorità paterne e istituzionali, se -sosteneva Confucio- “Il principe si comporta da principe, il ministro da ministro”.
Il concetto di “rispetto” dell’autorità non è stato propriamente riscoperto, in quanto questi si è trasformato in “sottomissione”, intendiamola come una armonia autoritaria. Un’utopia alquanto sinistra.
“Il confucianesimo è uno strumento di controllo sociale potente” sostiene il prof. Scarpari nel libro -Ritorno a Confucio, la Cina di oggi fra tradizione e mercato- “che presuppone il massimo rispetto (sottomissione aggiungo) soprattutto verso i superiori e le istituzioni, è quindi un ottimo strumento non coercitivo di governo, molto sottile, in quanto lavora direttamente sulla persona e sulle strutture sociali. Il recupero della tradizione e dei suoi valori e ideali funzionerà sia sul piano individuale che sociale: è una via iniziata dalla quale non si tornerà più indietro”.