Le cose bisogna lasciarle un po’ sedimentare.
A distanza di qualche giorno, appare evidente che il trasloco del West Ham dalla sede storica di Upton Park all’Olympic Stadium di Londra sia soltanto la superficie della questione. Ma, infilandoci la testa dentro, si possono vedere tanti pezzi di storia e società inglese e, trattenendo il respiro un po’ più a fondo, anche dinamiche economiche e comportamentali globali. Proprio così.
PIU’ DI UN BUSINESS (MA PER CHI?)
Diceva giusto quella vecchia volpe di Sepp Blatter quando diceva che: “Il calcio è più di un business perché è più di un gioco.”
Per carità, il co-presidente del club, David Gold, non perde occasione di ricordare gli anni della sua gioventù passata dalle parti di Green Street, la roccaforte di chi tifa West Ham, e dietro alla scelta del trasloco ci saranno anche le ragioni del tifoso desideroso di nuovi introiti per il bene e i successi futuri del club, ma è ragionevole pensare che dietro alla decisione dello spostamento una qualche influenza l’abbia pure avuta la parolina magica business.
Eh sì, perché per Gold e il suo socio ex-magnate del porno David Sullivan i margini di guadagno prospettati dal cambio di casa del club claret and blue – colori sociali degli Hammers – sono allettanti.
Punto primo, lo stadio verrà dato in gestione al club per 99 anni al prezzo di 2,5 milioni di sterline annue, che sono quisquilie in confronto alle prospettive di ricavi derivanti dal catering, dal merchandising, dalla vendita dei biglietti – già 52mila abbonamenti venduti per l’anno prossimo – e dai naming rights, parte dei quali verranno incassati dal West Ham.
Punto secondo, il terreno su cui sorge(va) Upton Park è stato venduto per 35 milioni di sterline a una società immobiliare che intende impiantarvi una zona residenziale e che non prevede nemmeno un metro quadrato da dedicare alla costruzione di social houses, l’equivalente inglese delle nostre case popolari…
Tutto molto bello per i due presidenti, meno per i piccoli commercianti e proprietari di locali della zona, i quali senza l’afflusso di tifosi saranno probabilmente destinati a chiudere bottega e per questo sono parecchio arrabbiati con Gold, Sullivan e l’amministrazione locale.
Una storia che, in fondo, non si discosta da tante speculazioni immobiliari.
Questo è ciò che si vede sulla superficie.
TANTE SOCIETA’ INGLESI DENTRO UPTON PARK
Infiliamo ora la testa sott’acqua. Innanzitutto, parliamo di nomi. Si accennava ai naming rights e a quanto pare per il nome della nuova casa del West Ham ha già fatto capolino il colosso automobilistico indiano Mahindra. Per ora non si è concretizzato, ma si vedrà.
Dal 1904 fino alla settimana scorsa, invece, Upton Park è stato conosciuto anche come Boleyn Ground, in quanto posizionato sul terreno che ospitava il Boleyn Castle, chiamato a sua volta così perché vi aveva dimorato Anna Bolena, in inglese Anne Boleyn. E qui siamo nella Storia con la maiuscola dell’Inghilterra, perché Anna Bolena non è mica stata un personaggio qualunque.
Per dirla in breve: 1) fu la donna alla radice dell’annullamento del matrimonio del re Enrico VIII con Caterina d’Aragona, che per altre circostanze connesse portò poi allo scisma con la Chiesa romana cattolica; 2) fu la madre di Elisabetta I d’Inghilterra, la sovrana che diede il via all’espansione britannica nel mondo; 3) fu, a quanto dicono, una donna bella, affascinante e ambiziosa, il che vi fa comprendere meglio il perché di 1) e 2).
Quartieri nobili, quindi, quelli dalle parti di Upton Park? Se mai vi è capitato di avventurarvi in quelle zone con la District Line o la Hammersmith & City della metropolitana londinese e di mettere il naso fuori per dare un’occhiata, sarete d’accordo con me che tutto ha quella zona tranne che un aspetto da aristocrazia britannica.
Siamo nell’East End di Londra – anche se qualcuno sostiene che Upton Park ne rimanga fuori perché troppo a est, noi per comodità facciamo finta che si trovi dentro all’East End-. Si tratta di quella parte della capitale inglese a est della City e a nord del Tamigi, passata alla storia nel XIX secolo per essere la culla di intrighi malavitosi, attività criminali più o meno rilevanti, prostituzione, degrado e quant’altro.
Cockney è la parola per definire chi proviene dall’East End e in particolare dai suoi slums, i bassifondi, e Cockney è la parola per definire la varietà di lingua inglese parlata dalla working class in quella fetta di Londra.
Cockney Rhyming Slang è invece il codice basato su rime e assonanze e sviluppato probabilmente in risposta all’esigenza da parte di ladri e malavitosi East Enders di non farsi capire dai poliziotti. Tanto per darvi un’idea, da quelle parti China plate – che letteralmente si tradurrebbe “piatto cinese” – viene in realtà a significare “amico”, in virtù della rima con mate. Stesso discorso per loaf of bread invece di head, “testa”, trouble and strife invece di wife, “moglie”, e così via… Il giochino ormai l’avete capito.
E’ in questo contesto sociale, storico e linguistico che il West Ham è nato e cresciuto e non è un caso se due canzoni popolari legate alla cultura Cockney come Knees Up Mother Brown e I’m Forever Blowing Bubbles sono diventate anche le canzoni per eccellenza dei tifosi Hammers.
La seconda, in particolare, è tanto legata ad Upton Park quanto You’ll Never Walk Alone è tutt’uno con Anfield Road e Liverpool e sarà davvero dura ricreare la stessa atmosfera nel nuovo stadio tre miglia più in là, dalle parti di Stratford, lontano da quei pub malandati dove scorrono fiumi di birra e si crea quel senso di cameratismo da working class londinese che accompagna la camminata fino al campo, il giorno della partita.
Eh, già: come scrive The Guardian, dall’anno prossimo il percorso per arrivare allo stadio del West Ham si snoderà lungo il centro commerciale di Westfield Stratford City e i suoi bei negozi puliti e lucidi di Hugo Boss e Mulberry con i commessi impomatati che ti salutano aprendo le braccia e sorridendo forzatamente a 32 denti con un How can I help you, anziché passare in mezzo a untissime kebabberie – si può dire? Boh, neologismo – e commercianti di sari.
Difficile, quindi, pensare a dei pre-partita simili a quelli descritti da Cass Pennant, ex-leader della InterCity Firm (ICF), una delle bande di hooligan più temute nella storia del tifo (violento) inglese… E qui, dopo aver preso respiro, ci immergiamo di nuovo sott’acqua.
UN MODO DI ANDARE ALLO STADIO CHE NON ESISTE PIU’ (PER FORTUNA)
Carol Pennant, per tutti Cass, abbreviazione di Cassius Clay, con il quale condivideva stazza fisica e colore della pelle, è passato alla storia per essere stato il primo hooligan a essersi beccato 4 anni di galera.
Negli anni Settanta, Cass e la sua banda di tifosi Hammers della ICF ne avevano combinate di ogni, fuori e dentro dagli stadi di tutto il paese. Agguati, risse, pugni, calci, sprangate, scontri con gli Old Bill, i poliziotti: il tutto è raccontato con dovizia di particolari – a volte si fa fatica a leggerli, tale è il quadro di malessere e di violenza che ne emerge, o perlomeno a me ha dato questa sensazione – in Congratulazioni, hai appena incontrato l’I.C.F., scritto da Pennant stesso.
Nel 2003, anno di pubblicazione del libro, Pennant aveva già lucidamente e anticipatamente descritto il cambiamento toccato ora anche al “suo” Upton Park.
Leggete che cosa dice (pag. 381) a proposito dell’andare in trasferta al Pride Park Stadium di Derby, nel quale il Derby County aveva traslocato nel 1997 dal vecchio Baseball Ground: “Se mai foste stati in quel vecchio Stadio del Baseball, sapreste come era invadere il soggiorno di qualcuno. […] Questa sì che è una comunità calcistica, è qui che la tua semplice presenza fa scaturire la domanda “Chi cazzo sei tu?” da parte degli abitanti del luogo, a cui risponderesti con gentilezza.
[…] Andare a Derby come un tifoso in trasferta oggi significa essere accolti dallo staff o da quelli del centro commerciale che ti dicono che lì non puoi parcheggiare.”
Lungi da me provare nostalgia per il fenomeno hooligan, ma Cass l’ha descritta in modo chiaro questa rivoluzione industriale del calcio moderno iniziata negli anni Novanta, seppur da un’ottica limitata alla visione ultras.
Nel guardare con nostalgia al passato, chissà che cosa pensa Cass di questo trasloco al parco olimpico. Forse anziché arrivare all’Olympic Stadium dalla stazione di Stratford, con il suo centro commerciale e le sue caffetterie, preferirà invece avviarsi verso lo stadio arrivando dalla stazione di Hackney Wick, distante solo un miglio, in cerca di atmosfere più adatte a un pre-partita di una domenica da leoni.
E invece no, perché anche lì le cose sono cambiate e la zona, da quartiere profondamente industriale e degradato, è diventata un laboratorio-rifugio per artisti o individui arty, l’aggettivo inglese che designa personaggi che passano la giornata a “fare cose e vedere gente”, come si diceva nei film di Nanni Moretti.
E io ve lo dico per esperienza vissuta, perché ad Hackney Wick, trascinato da amici, ci ho pure passato una sera d’autunno di due o tre anni fa, dentro a un capannone enorme – un freddo boia – a guardare una sfilza di cortometraggi in concorso a un festival il cui premio finale era rappresentato da una bottiglia di vodka (sic). Forse sarà stato che avevo bevuto un paio di birre, ma faticavo a capire questi aspiranti Andy Warhol – aspiranti, appunto – che mi circondavano, convinti che indossare una camicia a quadrettoni e scompigliarsi i capelli e mettere insieme frasi a caso infarcite di parole altisonanti con sguardo assente fosse sufficiente per convertire quel luogo in ciò che SoHo aveva rappresentato a New York… Anche in questo caso, quindi, non propriamente l’ambientazione che ci si aspetterebbe per perpetrare la gloriosa storia del club degli Hammers.
PERDITA DELL’ANIMA?
Insomma: dove stiamo andando? Mi sembra che sia chiaro che l’operazione di mettere insieme Olympic Stadium, tifosi provenienti dall’East End e presunta nuova SoHo ha apparentemente la stessa coerenza di infarcire una ciambella con olio di semi, bacche di goji e ketchup.
Si tratta di contraddizioni presenti soltanto nel calcio? Direi di no, basta guardarsi attorno. Da un lato ci troviamo immersi in un liberismo selvaggio, con la libera circolazione frenetica di tir, navi, treni che trasportano merci di ogni genere da un angolo del pianeta all’altro e con la possibile firma di un trattato, il TTIP, che prospetta scenari da “fotti e uccidi” e un’influenza sempre più opprimente delle corporations, le grandi aziende internazionali. Dall’altro lato, cresce il numero di persone sensibili a uno stile di vita più sostenibile e sostenitrici della filiera corta e del km zero.
D’altra parte, i casi di Lipsia e Salisburgo, con un’ampia fetta di tifosi che creano la propria squadra staccandosi dal progetto sportivo (più commerciale che sportivo) di Red Bull insegna che le due tendenze in atto a livello macroscopico nella società si riscontrano a livello microscopico anche nel pallone. Stesso discorso per lo United FC di Manchester, fondato da ex-tifosi del Manchester United in aperto contrasto con la proprietà americana dell’ex club di Alex Ferguson.
Riguardo agli Hammers, i 52mila abbonati della prossima stagione sembrano dare ragione a Gold e Sullivan, ma come sempre sarà nel lungo termine che si potrà dare un giudizio. L’auspicio è che l’Olympic Stadium acquisisca in fretta una propria identità e soprattutto un’anima: sarebbe triste che la casa del West Ham diventasse l’ennesimo centro commerciale mascherato da impianto sportivo, l’ennesimo non-luogo dove tutto è piatto, dal cibo, alla birra, alla carta igienica.
Come scrisse il grande storico Arnold Toynbee: “E’ tipico delle civiltà in declino tendere verso maggiore uniformità e standardizzazione.” Il tifo, oltre che per il West Ham, lo facciamo per un altro tipo di società.