Perché il Leicester ha vinto la Premier League: tutti i segreti di Claudio Ranieri

Perché il Leicester ha vinto la Premier League: tutti i segreti di Claudio Ranieri

Come ha fatto il Leicester a vincere la Premier League? È probabilmente la domanda che più sovente ha tormentato gli appassionati di calcio durante questa stagione, senza mai ottenere una risposta soddisfacente. E quasi certamente una risposta esauriente non la si avrà mai, ma si può tentare un’analisi, ammesso che sia possibile farla senza aver vissuto a contatto con quello che il Leicester è stato giorno per giorno. Bisogna intanto dire che quando accadono imprese di questo genere sono necessarie congiunzioni astrali di moltissimi fattori che vanno a combaciare simultaneamente per creare qualcosa che finisce per essere fuori dal controllo delle singole cause. Si è parlato di uno spogliatoio unito, di alcuni giocatori fondamentali, di aspetti tattici, ma fra tutti si può presumere che il fattore più rilevante sia stato quello dell’allenatore. Perché l’allenatore è il collante fra tutti i pezzi: tra le personalità dei singoli giocatori, tra questi e la società e il pubblico e la stampa, perché l’allenatore è sempre il volante di una macchina calcistica, e a volte basta cambiare la guida per ottenere il meglio o il peggio da una qualsiasi squadra.

In questo caso Claudio Ranieri ha permesso che la favola del Leicester fosse possibile con i suoi modi di fare, riassumibili in un caposaldo fondamentale: la gestione dello spogliatoio, a cui si può aggiungere una grandissima preparazione tattica difensiva, e nient’altro. Certo, gestire lo spogliatoio di una squadra di bassa classifica come il Leicester può sembrare una sciocchezza, ma è dal rapporto che si ha con i giocatori che si crea la mentalità di una formazione. Gestire una rosa di giocatori che puntano a salvarsi rimanendo in vetta alla classifica settimana dopo settimana, mese dopo mese, può equivalere a gestire una rosa di campioni costretti a lottare nei bassifondi del campionato. I meccanismi sono completamente diversi ma equiparabili. Non a caso molti grandissimi allenatori non sarebbero mai in grado di allenare squadre di piccolo calibro e molti allenatori di provincia hanno fallito il salto nelle grandi realtà. E da un certo punto di vista Ranieri può rientrare a pieno titolo in questa seconda fascia.

maglia Leicester campione Claudio Ranieri

Le competenze in questi due diversi gruppi sono totalmente opposte, sarebbe come chiedere a Messi di blindare la difesa o a Sergio Ramos di risolvere le partite. Forse anche per questo quello che oggi viene osannato come King Claudio è sempre stato ritenuto l’eterno secondo per eccellenza. Trovare l’ambiente più congeniale alle proprie caratteristiche è fondamentale in qualsiasi mestiere e Ranieri a Leicester lo ha trovato. «Non soffriamo la pressione, non c’è pressione.» spiegò in un’intervista, e questa è stata una delle chiavi più importanti del suo successo «Bisogna fare come fanno gli scalatori: guardare sempre in alto. Se guardi giù, sei finito». Il poter lavorare con la tranquillità di aver capito che dopo pochi mesi l’obiettivo stagionale era già stato praticamente raggiunto, e da lì provare a volare senza aver paura di cadere. «Ho un giocatore che viene ogni mattina da Manchester, uno arriva da Londra. Non sarebbe pensabile in Italia, ma nemmeno in Inghilterra. A Leicester si fa perché il gruppo se lo può permettere». Nelle Midlands orientali Ranieri ha ritrovato l’ambiente provinciale dove può rendere al massimo delle sue potenzialità.

L’aspetto tattico del suo gioco lascia il tempo che trova. Le sue squadre sono sempre state contraddistinte da due aspetti salienti: meccanismi difensivi tatticamente ineccepibili e un gioco offensivo lasciato alla mercé degli attaccanti. Se ne può discutere quanto si vuole ma tutte le sue formazioni, chi più chi meno, hanno mostrato questi tratti, e forse anche per questo la gestione di un piccolo club si addice meglio alle sue idee di gioco. Lo si capisce vedendo giocare le sue squadre (perfino il Leicester campione d’Inghilterra ha una percentuale di possesso palla molto bassa, ma una delle difese meno battute e non perde quasi mai) ma anche dalle sue dichiarazioni, velatamente chiarificatrici: «Il calcio di un tecnico italiano vuol dire questo, tattica, cercare di impossessarsi della partita seguendo gli schemi e le idee dell’allenatore. Parlare tanto di calcio. Non mi sembravano convinti, nemmeno io lo ero. Ho molta ammirazione per chi costruisce moduli di gioco nuovi, ma ho sempre pensato che prima di tutto un buon tecnico debba impostare la squadra sulle caratteristiche dei suoi giocatori», e ancora «Io voglio uomini intelligenti. Se in squadra hai uomini intelligenti puoi migliorare anche i giocatori». Ma non è la prima volta. A Roma, nel corso di un’intervista per il Corriere dello Sport (30 settembre 2010) spiegò: «Non mi piace dire che facciamo schemi in attacco, a calcio si gioca con l’organizzazione difensiva, poi negli ultimi trenta metri dipende dalle nostre idee». Più chiaro di così.

Claudio Ranieri
Fonte: https://twitter.com/matte_campo/

Ricapitolando, con un’eccellente preparazione tattica difensiva e libertà di azione all’estro dei giocatori offensivi una piccola può rendere al massimo, perché possiede le competenze per difendersi contro le grandi – specialmente in Inghilterra dove la tecnica, la rapidità e la tattica non sono le prerogative più importanti – e giocando di rimessa viene esaltata l’intelligenza dei propri uomini più pericolosi: «[Vardy] pressa e lavora senza fermarsi mai. Io voglio dei soldati e lui non è un calciatore ma un fantastico purosangue. Gli dico sempre: “Sei libero di andar dove vuoi, ma ci devi aiutare quando perdiamo palla, è tutto ciò che ti chiedo. Se inizi a pressare, i tuoi compagni ti seguiranno”». Ecco che pian piano tutti i pezzi del puzzle stanno andando al loro posto. «Di mio c’è il sistema di gioco e l’aver messo i giocatori giusti al posto giusto per far sì che Vardy tirasse fuori le sue qualità. Gli ho dato la libertà di attaccare, di giocare come sa. Non possiamo però provare troppi schemi per troppe volte. In Inghilterra non sono abituati a ripetere molti movimenti tattici e non voglio imbambolarli». Più chiaro di così. E la cosa ha una sua logica, come spiegò lo stesso Ranieri in un’altra occasione: «Il possesso palla mi piace se ho una squadra con molta qualità. Quando hai il 70% significa anche che gli altri ripiegano e ti aspettano, tu allora devi avere la chiave per aprire quella cassaforte e non è facile. Il possesso palla non può essere un obiettivo, l’obiettivo è fare gol». In un paio di righe King Claudio chiarì perfettamente perché con aspettative minori ha sempre reso meglio.

Eppure non può essere tutto qui. In fondo saper gestire una squadra di provincia e limitarsi a difendere sono caratteristiche comuni a molte realtà. Cos’ha di diverso questo Leicester? Di certo non i calciatori. La società ha speso meno di cinquanta milioni di sterline in estate, una cifra spropositata per la maggior parte delle squadre d’Europa, ma dopo il mega-contratto per i diritti televisivi da sette miliardi, una campagna acquisti del genere è ben sotto la norma in Premier League. E il Leicester ha vinto in Premier, non in Europa, perciò va confrontata solamente con le altre società inglesi. E in questo senso basta sottolineare un dato: il monte ingaggi di meno di settanta milioni di sterline corrisponde a meno della metà della metà delle grandi. Sicuramente l’esplosione di giocatori come Mahrez e Vardy ha inciso tantissimo: non sono solo ottimi calciatori ma pedine che non sfigurerebbero in nessuno stadio, e quest’anno hanno dimostrato di poter fare il salto di qualità. Ma sono gli stessi giocatori che aveva l’anno scorso Nigel Pearson, e l’essere esplosi proprio quest’anno può essere un altro indizio verso le capacità di Ranieri, un uomo in grado di creare il giusto ambiente di tranquillità e soprattutto spirito di gruppo.

Leicester City Training Session Claudio Ranieri

Sembrano parole inflazionate ma in questo caso sono le più azzeccate che mai. Tormentoni come quello del dilly-ding dilly-dong o delle cene in pizzeria non devono essere semplice aneddoti, ma pezzi che completano un quadro via via sempre più chiaro. Quando l’allenatore lascia libertà ai propri calciatori, sia tattica che psicologica, creando un ambiente a conduzione familiare può rischiare di perdere le redini dello spogliatoio, ma se lo sa fare nella maniera giusta può ottenere il massimo dai propri calciatori, liberi di esprimersi e di dare il tutto per tutto non solo per se stesso o per il risultato, ma per un valore che va oltre quello sportivo. «In Inghilterra il gioco è sempre ad alta intensità, sfinisce. C’è più bisogno di recuperare. Noi giochiamo il sabato, la domenica è libera per tutti. Il lunedì riprendiamo in leggerezza, come i lunedì italiani. Martedì allenamento duro, mercoledì riposo assoluto. Giovedì altro allenamento duro, venerdì rifinitura, sabato di nuovo partita. Due giorni almeno fuori dal pallone. E’ questo il patto del primo giorno, mi fido di voi». Ranieri ci crede ciecamente, ed è disposto a sacrificare tattica e preparazione atletica per raggiungerlo. Un rischio ripagato. «[Ritiri e preparazione atletica] secondo me servono a poco, o meglio, hanno meno importanza in Inghilterra. Qui si allenano tutti con grande intensità, c’è agonismo anche quando si fanno gli scatti sulla pista. E le partite sono sempre molto combattute. La mia idea è che prima di tutto i giocatori abbiano bisogno di recuperare, poi di allenarsi». Non c’è da meravigliarsi se a Roma si assistette a un allenamento di meno un’ora.

Tutto ciò però non deve mai intaccare la professionalità di un allenatore preparatissimo: «Sono arrivato in agosto e mi sono messo a guardare le registrazioni di tutte le partite della stagione precedente» e che nel tempo ha anche saputo cambiare molte delle sue metodologie di allenamento e molti uomini del suo staff. A Leicester ha tenuto gran parte dello staff del suo predecessore, facendosi seguire solamente da due collaboratori Andrea Azzalin (conosciuto nel 2012 nel Principato di Monaco), che a differenza di Riccardo Capanna lo ha avvicinato a un approccio sui carichi di lavoro specifici, e Paolo Benetti (suo vice dal 2007 ai tempi della Juventus). E se si può azzardare la chiave del suo successo, il fattore più importante della sua gestione è stata probabilmente quella capacità di trasmettere allo spogliatoio la forza psicologica necessaria per non mollare la presa nei momenti appagamento. Quella forza di continuare a dare il massimo nei momenti di stanca e di tenere alta la concentrazione quando il peggio sembra passato è stato il surplus che ha permesso al Leicester di compiere un’impresa.

Il dubbio più che legittimo è chiedersi se tutto ciò non sia solo speculazione a posteriori, ma scavando nel passato di Claudio Ranieri si possono cogliere lampi di questa mentalità coriacea che ha sempre contraddistinto le sue squadre, e che allo stesso tempo non è mai maturata completamente da trovare l’alchimia perfetta per vincere un trofeo importante. Considerando l’ultimo decennio – forse il più significativo nell’ottica di una evoluzione professionale che dovrebbe portare ogni professionista a migliorare con il tempo e l’esperienza –, si intravide qualcosa già a Parma, quando prese la squadra nel girone di ritorno e, una volta messi a posto i cocci, nelle ultime sette giornate di campionato tirò fuori i ducali dalla zona retrocessione con sedici punti su ventuno disponibili, espugnando il Barbera di uno dei Palermo più forti di sempre (finì 3-4) e pareggiando con la Lazio di Delio Rossi, poi arrivata terza. Grazie a quelle cinque vittorie i crociati arrivarono dodicesimi, e fu qualcosa di importante.

Valencia Claudio Ranieri

Ma probabilmente il massimo lo raggiunse a Roma, quando ancora una volta prese la squadra in corsa – non può essere un caso che le sue stagioni migliori siano state atleticamente preparate da altri tecnici, particolare trascurabile per una piccola, ma forse fondamentale per gestire una rosa di una squadra che parte con grandi ambizioni. Nel 2009/10 saltò in sella a una squadra abituata atleticamente e tatticamente a fare cose importanti e la riassemblò aggiungendo i suoi due in gradienti migliori: la gestione del gruppo e la sua forza psicologica. Al termine del girone d’andata la Roma distava tredici punti dalla capolista, ma aveva iniziato a carburare: con quindici vittorie, tre pareggi e appena una sconfitta (quella con la Sampdoria, nella gara più importante ma forse meglio giocata di tutto l’anno sul piano del gioco) rimontò posizione su posizione arrivando a giocarsi lo Scudetto con l’Inter di Mourinho (e assaporare il tricolore virtuale per trentasette minuti nell’ultima giornata). La sua rimonta fu ai limiti dell’impossibile, qualcosa di mai visto prima né dopo, ma si spense sul più bello.

Ma la mentalità delle sue formazioni è sempre stata quadrata. Si pensi al derby capitolino proprio durante quella stagione, a quattro gare dal termine e con i giallorossi in testa alla classifica: sotto di un gol al duplice fischio, ebbe il coraggio di togliere Totti e De Rossi e ribaltò il risultato, dimostrando una forza caratteriale invidiabile. Non a caso in trent’anni da allenatore non ha mai perso un derby, né in Spagna con il Valencia ma soprattutto con l’Atlético Madrid (ai tempi del Real Madrid dei Galacticos), né in Italia con la Juventus, l’Inter e la Roma (con la quale inanellò quattro derby vinti consecutivamente). Tutto questo non può essere un caso, un filo conduttore ci deve essere. Ribaltare i pronostici quando si è sottovalutati (con la Juventus ad esempio batté il Real Madrid in entrambe le sfide di Champions League) e non mantenere le aspettative quando si parte favoriti può sembrare un limite, un tremendo limite. Ma quando si fallisce dove pochi hanno riuscito e si riesce dove nessuno ha mai tentato significa oltrepassare quel limite una volta, ma per sempre.