Il personaggio di Johan Cruijff oltrepassa la barriera calcistica e diviene costume di ciascuna famiglia di stampo olandese. Cruijff non è solo metafora del calcio moderno ed odierno, bensì è vero e proprio súmbolon (simbolo): una faccia di una tessera che rappresenta una nazione intera, in tutte le sue sfaccettature. Il Quattordici rispecchia i Paesi Bassi: ingegno, spocchia, cura dei dettagli, fiuto per gli affari, anticonformismo e colore. Sì, un colore arancio che Cruijff portò alla visione del grande pubblico nei campionati mondiali tedeschi del 1974. Le vicissitudini e gli aneddoti di quella splendida competizione sono stati portati a galla nelle ultime ore, in seguito alla scomparsa del Quattordici. Mi sembra altamente improbabile scrivere qualcosa di nuovo sul calciatore che ha influenzato radicalmente il calcio moderno ed è stata la personalità più debordante nel panorama di questo mirabile sport, perciò vorrei spiegare cosa voglia dire per me Cruijff.
Cruijff non è il mio idolo, non ho mai sopportato il suo essere borioso ed il suo fare da superstar. Cruijff però mi ha influenzato, seppure non lo abbia mai visto giocare. I racconti di mio padre del Quattordici mi hanno regalato la prospettiva di un calcio propositivo, ma questo concetto base lo assimilerò totalmente solo anni in avanti. La fascinazione era dettata da quel quattordici sulla maglia e prese piede in un episodio della mia infanzia. “Battaglion…14” – tuona il mister. È la mia prima partita con i pulcini, sono emozionatissimo, i pantaloncini sono così larghi che mi arrivano alle caviglie e le mie Diadora sono piuttosto usurate, eredità di mio cugino. Sono teso, perché sono sempre stato un ragazzino molto emotivo e provo un profondo rispetto per il calcio, inoltre mi sento davvero ridicolo con i calzettoni attaccati tramite il nastro adesivo alle gambe perché erano di taglie nettamente superiori alla mia, senza contare la maglia sgualcita che tocca le mie ginocchia. Tutti sono molto più grossi di me, la muta agli avversari calza a pennello e hanno dei voli estremamente inespressivi: sanno quello che fanno, io no. Nello spogliatoio mi guardo la maglia: “Cavoli è bianca, con una striscia rossa centrale ed il numero è quello giusto. Oggi gioco la mia prima partita e posso essere quel Johan Cruijff dell’Ajax e della nazionale olandese. Lui è magro come me ed era esile da ragazzino mi ha raccontato papà. Bene, oggi gioco con lo spirito guida di Cruijff, non posso sbagliare”. Inizio a sentirmi più tranquillo, mi siedo al bordo del campo e aspetto che il mister mi faccia entrare nella ripresa. “Batta (ebbene il mio soprannome prese piede proprio da quella stagione) entra in campo e divertiti”, oltrepasso la linea bianca e sono parte della contesa. Sbaglio clamorosamente uno stop: il mio primo pallone è spettro e metafora della mia esperienza calcistica: “poco fortunata”. Il calcio, però, è uno sport mirabile e la dea bendata mi offre un pallone da spingere in rete: sorprendentemente non sbaglio. Corro verso mia mamma, appostata con mia zia sulle tribune e la saluto. “Mamma sono Cruijff, Mamma hai visto sono come Cruijff” – esultavo con forza dentro di me. Avevo nove anni e già mi sentivo una sorta di figlio del Quattordici. Le successive panchine con il quattordici sulle spalle sono sempre state dolci, non potevo perdermi d’animo con quelle cifre sulle spalle. Sì, perché quel quattordici diviene metafora della fattura del mio sangue. Cruijff è il prodotto dei Paesi Bassi, “il tulipano più bello” non ho esitato a definirlo al momento della sua scomparsa nella giornata di ieri. Esserne parte, con quel numero che è divenuto il mio numero, è sempre un onore d’altri tempi. È un privilegio fingersi Cruijff che risulta essere una emozionalmente partecipata manifestazione di rispetto nei confronti di una personalità straordinaria e inimitabile.
Johan Cruijff, durante la mia pausa dal calcio giocato – periodo dove dovevo dimostrare qualcosa a me stesso e che potevo andare al di là del mondo che ho tanto amato e per fortuna amo tuttora – diviene simbolo della mia ribellione adolescenziale. “Sembri un calciatore dell’Olanda del 74’ con quei capelli lunghi” – mi rimproverava mio padre. Effettivamente il capello liscio e lungo c’era, il naso debordante non è mai mancato, veniva meno tutto il resto, ma questo non mi ha fatto desistere dal sentirmi Cruijff nella vita di ogni giorno. Ostinato e caparbio, talvolta insopportabile, io e la mia musica Heavy Metal. Incontrollabile e scomodo, oltre che sciocco e idealista. Il canovaccio era quello di far la “rivoluzione”, come Cruijff. Sì, perché dietro le enormi sessioni pomeridiane di ascolto intensivo degli Iron Maiden (tanto per citare un gruppo qualunque), non ho mai smesso di pensare a Cruijff. Lui è stato un inventore, un profeta, un poeta del pallone, uno che ha evaso il pensiero quotidiano. Una figura, avvallato il panorama calcistico, che mi ha sempre ispirato. Sì, perché Cruijff ha neutralizzato il vecchio modo di fare calcio e pensare al calcio dei vecchi maestri di questo sport, come io intendevo oppormi narcisisticamente ai professori del mio liceo. Velleità giovanili e nulla più, ma nella mia mente di ragazzo Cruijff ha effettuato l’eversione decisiva e costruttiva. Un totem della rivoluzione giovanile, un caposaldo che, tramite la sfera a toppe esagonali, mi ha trasmesso i valori del sapersi mettere in discussione e del saper mettere in discussione.
La giornata di ieri è stata davvero triste per il mondo del calcio, è deceduta una divinità. Una volta appresa la notizia della dipartita di JC14, all’età di sessantotto anni, imbraccio il telefono cellulare e chiamo mio padre, in vacanza a Barcellona per una pura coincidenza di questo fato beffardo che si è portato via il padre del calcio in una splendida giornata primaverile. “Papà devo darti una brutta notizia: è morto Cruijff” – cala il silenzio e l’incredulità assale il mio genitore. Termino la telefonata e tiro fuori dal mio armadio la maglietta storica del 1974, regalatami da un caro amico. È la maglia di Cruijff con solo due strisce nere sulle maniche, al posto delle canoniche tre previste dall’Adidas. La stendo sul letto e realizzo quanto Cruijff abbia dato alle vite degli olandesi, alla mia vita e chissà quante altre esistenze ha segnato positivamente. Il cuore mi si gonfia di rispetto, ripongo l’indumento nell’armadio con la convinzione che Cruijff è immortale ed il calcio è in eredità del Quattordici, perciò la morte non può trionfare su Cruijff, sottraendosi al giogo della fine con lo strumento più celebre e straordinario: la fama dell’essere una leggenda.
Scrive Gianni Brera nella postfazione delle “Operette Morali” di Giacomo Leopardi edito da BUR Rizzoli: “[…] Ed io ammetto un po’ confuso di aver considerato iperbolico sotterfugio adeguare i ritmi di quell’avvio leopardiano all’armoniosa danza di Pelé con la palla al piede. […]”. Ebbene il signor Brera non ha mai sbagliato un colpo, perciò mi sento di ripetere, da aspirante filologo, in parte ciò che dice Gianni Brera. Cruijff è assimilabile al periodare di Dante nella Divina Commedia: il suo incedere è sempre stato continuo ed inarrestabile. Dribbling eleganti e giocate puntuali che paiono calibrate come le celebri terzine, frutto di uno studio metrico straordinario. Cruijff ha letto il calcio e lo ha interpretato con lo stesso rigore e medesima naturalezza con le quali Dante arrivo a scrivere la Divina Commedia. Inoltre il linguaggio calcistico di Cruijff è stato rivoluzionario, quanto il poetare dell’Alighieri. Due colonne d’ercole dei propri rispettivi campi d’azione, accomunati dal naso adunco e l’irrompente portata.
«La creatività non fa a pugni con la disciplina.» – Johan Cruijff