Italo Express: quando nel calcio l’arroganza diventa una lezione

arroganza

Lo sport prepara alle sfide della vita; lo sport insegna ad accettare le sconfitte; nello sport è bene essere umili.
Ma nel mondo del calcio molto spesso non è così e c’è chi non la pensa esattamente in questa maniera.
L’ultimo in ordine di tempo è Cristiano Ronaldo che in un’intervista a “Papel”, chiarendo il perché di alcune critiche, ha detto: “Non posso vivere pensando tutti i giorni a cosa pensano di me gli altri. Sono antipatico? Nemmeno Dio piaceva a tutti. C’è chi mi odia, chi mi dice che sono arrogante e vanitoso. Fa parte del mio successo. Sono nato per essere il migliore. Se ho raggiunto tutti questi risultati, se sono quello che sono, non devo certo cambiare”. Questa sorta di arroganza esacerbata dall’attenzione dei media fa parte del suo Essere. Andare contro corrente, essere a suo modo un anticonformista che si scontra con il credere comune gli dà energia vitale per sopportare l’enorme pressione di dover essere ogni giorno il numero uno. Questo è quello che crede, questo è quello che dicono i fatti: miglior marcatore nell’anno solare 2015. Al Real c’era un periodo in cui lo chiamavano “El ansia”, per l’ossessione che riponeva nel suo lavoro.

In passato aveva creato clamore per la sfacciataggine con cui aveva dichiarato che la gente fosse invidiosa di lui perché è ricco, bello e bravo. Qualcuno dovrebbe suggerirgli che essere ricchi non è poi un vero merito da sbandierare. Dichiarare di essere il numero uno è sicuramente una fonte di motivazioni importante che però nasconde una certa insicurezza. Abbiamo mai sentito Lionel Messi fare proclami del genere? A ricordarlo per lui, anche con una certa regolarità, ci sono i suoi compagni di reparto Neymar e Suarez. Non siamo certi che lo pensino veramente in fondo al loro cuore, ma un certo tipo di atteggiamento è funzionale all’intesa di MSN (Messi-Suarez-Neymar), il trio d’attacco che sta impressionando con una certa costanza e punta ad entrare nella storia dalla porta d’ingresso principale.

Solo qualche anno prima di CR7, il numero 7 del Manchester United era appartenuto a Eric Cantona. Di quella squadra lui era il leader morale, più che il leader tecnico, sebbene avesse lasciato il segno con reti pregevoli, all’altezza del suo genio. “Io non sono un uomo, io sono Eric Cantona” esordì una volta. Di lì a poco sarebbe diventato il re dell’Old Trafford per i tifosi dei Red Devils. “Non giocavo contro un avversario, giocavo sempre e solo contro l’idea di perdere” confessò una volta dopo essersi ritirato dall’attività agonistica.

Il top della categoria dei gradassi spetta a Zlatan Ibrahimovic. Iniziò molto presto: alla tenera età di 18 anni, infatti, disse ai suoi compagni di squadra del Malmö: “Ricordate bene il mio nome e la mia faccia. Mi chiamo Zlatan Ibrahimovic e diventerò il miglior giocatore di calcio al mondo”. Qualche anno dopo, il giorno della presentazione con la maglia dell’Ajax, ad alcuni cronisti un po’ invadenti aveva riposto: “Io sono Zlatan, e voi chi diavolo siete?”

Basti sapere questo aneddoto per innamorarsene. La sua schiettezza che trasborda nella spacconeria ha un qualcosa di ironico che in CR7 non si percepisce. Qualche anno dopo, sempre Ibracadabra, per giustificare il fatto di non aver mai preso il pallone d’oro disse: “Non mi serve il Pallone d’oro per sapere che sono il più forte del mondo”. All’ultimo mondiale in Brasile la Svezia non partecipò, eliminata negli spareggi proprio da Cristiano Ronaldo con una tripletta nel match decisivo; Ibra, che dal canto suo in quella partita aveva segnato solo (si fa per dire) due reti, ormai fuori dai giochi, mestamente disse: “Un Mondiale senza di me è poca cosa, non c’è davvero nulla da guardare e non vale nemmeno la pena aspettarlo con ansia”. Se l’amarezza è visibile, la sentenza lo è ancora di più dal momento che con tutta probabilità Ibra chiuderà la sua carriera senza aver segnato nemmeno un gol in una rassegna iridata.

Nei nostri cuori rimangono indelebili anche le parole di George Best, il più autoironico di tutti nel suo essere fanfarone. “Ho sentito raccontare molte leggende ai bambini… Alcune di queste riguardavano me”.
Con la sua nazionale affrontò e irrise anche il profeta del gol Johan Cruyff. Era il 1976 e la sua carriera, all’alba dei 30 anni, era al crepuscolo, complice il terribile flagello della dipendenza dall’alcol. Ciononostante l’orgoglio di un calciatore prevale sempre: “Si giocava Irlanda del Nord – Olanda. Giocavo contro Johan Cruyff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al 5° minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruyff. Gli arrivo davanti gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: ‘Tu sei il più forte di tutti ma solo perchè io non ho tempo’”.
Le sue uscite da Capitan Fracassa non riguardavano solo il mondo del calcio, ma anche le donne, che ha amato tanto quanto il calcio: “Ho amato almeno 2000 donne senza doverle sedurre, mi bastava dire ‘Ciao, sono Best del Manchester United’”. Molti anni dopo, sempre parlando di calcio, si trovò a dover rilasciare un commento proprio su Cristiano Ronaldo, il nuovo astronascente del Manchester United, che vestiva la sua stessa maglia, la numero 7: “Ci sono vari giocatori nel corso degli anni segnalati come il nuovo George Best, ma questa è la prima volta che è stato un complimento per me”.

Il vecchio allenatore della Lazio, Vladimir Petkvic, durante la preparazione estiva del 2013 pretendeva dai suoi giocatori che facessero un’ora di corsa continua prima di fare colazione. Lo sforzo, benché non intenso a livello muscolare, era duro da sopportare ed era volto ad una crescita dell’autostima dei giocatori. 5 km circa da percorrere a digiuno e che si concludevano con una sessione di stretching. L’atteggiamento di quella Lazio era, sì rispettoso nei confronti delle grandi, ma anche sicuro e determinato, pienamente consapevole della sua forza. Ebbene quella Lazio acquisì aggressività, spinta sulle fasce e la mentalità vincente delle grandi.

Tra gli allenatori, il primo posto spetta senza ombra di dubbio a José Mourinho: “Se avessi voluto un lavoro facile sarei rimasto al Porto: una bella sedia blu, una Champions League, Dio, e dopo Dio, io”. I presidenti lo vogliono perché la sua convinzione è una garanzia, la sua sicurezza è tale da essere diventato un brand che viene pubblicizzato. Emblematica fu l’esternazione di una manciata di anni fa, quando si difese così: “Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia meglio di me”. 

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