Mentre Falcão, quello che diventerà il più forte giocatore della storia del futsal, si aggiudica il suo primo titolo alle soglie del Duemila, per le strade di Santos, cittadina portuale di nemmeno mezzo milione di abitanti, si stravede per due piccoletti che fanno impazzire chi ha il coraggio di affrontarli. Uno dei due si chiama Leonardo Carrilho Baptistão, ma per tutti è semplicemente Léo: ama la musica e il calcetto e probabilmente sfonderà, perché qui nel sud del paese non ha rivali. Ma da poco è arrivato un altro ragazzino niente male, la sua famiglia si è appena trasferita a Santos e lo ha iscritto al Portuguesa. Si chiama Neymar da Silva Santos Júnior, ma per tutti è solo Neymar. E da quando c’è lui la rivalità per lo scettro cittadino è nuovamente in bilico. L’allenatore del Portuguesa santista si sfrega le mani quando li vede giocare assieme, perché la sua squadra di calcetto è imbattibile. In una semifinale di un torneo locale Léo segna sette reti, Neymar nove. In pratica è come giocarsi la Coppa Davis con Nadal e Federer nella stessa squadra. In uno di questi tornei si aggiudicano il titolo di capocannoniere ex aequo con ventiquattro reti a testa.
Così il Santos li nota e li strappa ai rivali per portarli nel centro del club più importante della città. Ma nel giro di poco la rivalità inizia a spegnersi. Neymar inizia una rapida ascesa che lo porta a guadagnare più soldi di suo padre, ex-calciatore, all’età di soli quattordici anni. Ma soprattutto, assieme a Ganso, diventa la grande promessa del vivaio del Santos, mentre Léo è rimasto al palo: spadroneggia nel futsal dove resta a giocare fino a quindici anni, ma è stato scartato per la sezione di calcio a undici. Allora un giorno a papà Adolfo viene l’idea di giocarsi una carta. Il suo amico Luiz Pereira, ex-difensore della nazionale brasiliana, conosce un certo José Antonio Gómez Feijoó, uno spagnolo che lavora in Brasile da una dozzina di anni come osservatore e che potrebbe fargli fare un provino con il Juvenil C del Getafe. La cosa va in porto, José Antonio lo segnala a Manuel Rangel, il suo uomo di fiducia, e Léo parte per Madrid a giocarsi la sua grande opportunità. E la cosa funziona per qualche mese, ai selezionatori il ragazzo piace, ma i soldi non bastano: nonostante gli azulónes siano in massima serie, non possono garantirgli anche una sistemazione logistica, e si ritrova costretto a cercare qualcuno che possa offrirgli qualcosa di meglio.
Così si rimette in aereo e prova una seconda chance a Blackburn, dove ha un contatto per un trial con i Rovers. Anche stavolta il provino va più che bene, nonostante i suoi quindici anni ha un fisico robusto a cui sa abbinare la tecnica affinata in quasi un decennio di calcio a cinque. Ma stavolta è lui a non essere convinto: non gli piace né il clima e tanto meno la città. Dietro-front. Chiusa la valigia, si ritorna a Madrid. E proprio qui ci sarà la svolta della sua carriera: il Rayo Vallecano non solo è disposto a offrirgli un contratto ma anche a includervi un alloggio in Avenida de la Albufera, nel centro sportivo del club. Ma come nelle più creative storie d’avventura il lieto fine è ancora lungi dal presentarsi: gli viene diagnosticata un’epatite e torna subito a curarsi in Brasile. Ma a Vallecas sono disposti ad aspettarlo e al suo ritorno viene accolto a braccia aperte. Viene integrato nel Juvenil, la Primavera spagnola, ma la Federcalcio gli impedisce di tesserare un altro extracomunitario, perché durante il suo ritorno in Brasile il Rayo ha esaurito gli slot per gli stranieri.
A questo punto la strategia è chiaramente quella di trovargli un prestito in un’altra squadra nell’attesa che si procuri il passaporto italiano. Finisce al Juvenil del San Fernando de Henares. Si tratta della sua prima vera stagione di calcio a undici, le sue abilità tecniche si vedono subito – e lo testimoniano alcune reti di classe sopraffina –, ma è anche un periodo difficile. Dopo tanto tribolare si ferma a pensare. E quando un ragazzo di diciassette anni, solo e lontano migliaia di chilometri da casa, si ferma a pensare non può che finire in laghi di pianto. Quando si allena male e non viene convocato per la gara si interroga sul suo futuro, gli viene voglia di mollare tutto e tornare a casa. In fondo lui non ha mai creduto di poter realmente fare il calciatore: già in Brasile quando c’era da fare il salto dal calcetto al calcio si era reso conto che erano in molti più bravi di lui. Chiama in Brasile, piange al telefono, il padre lo rassicura: «pensa solo a divertirti e a giocare a calcio, ma se proprio non ce la fai prendi il primo volo per casa», perché ogni volta che lo lascia partire per l’Europa gli infila sempre nella valigia un biglietto per il ritorno. E un giorno di questi prende e torna davvero a Santos.
Papà Adolfo non gli rimprovera nulla, mamma Denis e la sorella Fernanda sono ancora più contente che sia tornato, ma gli amici hanno il coraggio di dirglielo in faccia. «Tu sei forte, torna a riprenderti in mano la tua vita, tanto qui che ci resti a fare? Guarda che farai la fine nostra, èh!». E Léo anche stavolta torna. Finalmente ottiene il passaporto italiano e può finalmente ricominciare dal Rayo Vallecano, con il quale prende parte al prestigioso Torneo Social organizzato a giugno dal Real Madrid. Proprio in questa occasione lui e Borja García (l’anno scorso al Córdoba) finiranno sui taccuini degli osservatori blancos. Ma soprattutto inizia l’avventura con il Juvenil di Vallecas e tutto sembra girare finalmente per il verso giusto. Divide una stanza con Lass Bangoura, altro orgoglio della cantera rayista, e sotto lo scudo di Diego Montoya chiude la stagione con undici reti, tanto che di quando in quando José Ramón Sandoval lo convoca in prima squadra, che a fine campionato otterrà il grande ritorno in Primera.
All’alba della stagione 2011/12 il tecnico franjirrojo decide di portarlo in ritiro con i grandi, dove trova anche lo spazio di un’amichevole a Tempio Pausania, persa due a uno contro il Cagliari, ma non prima della sua prima rete stagionale. Il pre-campionato fila liscio e forse Sandoval vuole tenerlo con sé e far risparmiare alla società i soldi per un altro investimento, ma il giorno della presentazione a Vallecas contro lo Sporting Gijón resta a terra: un infortunio alla clavicola lo mette k.o. per almeno un paio di mesi. Alla fine di agosto arriverà Tamudo mentre Léo Baptistão viene aggregato alla squadra riserve, ma non prima di un altro colpo di scena. Alla sua porta bussa proprio il Real Madrid che gli propone di cambiare quartiere e far parte della Fábrica. Dopo tutto quel che ha passato e tutta la pazienza mostrata dal Rayo non può voltar loro le spalle, così decide assieme al suo agente Manuel Rangel, proprio colui che gli combinò il provino a Getafe, di rimanere a Vallecas e accontentarsi di un quadriennale a 120mila euro. Niente a che vedere con i soldoni delle merengues ma tanto il Madrid si è già rifatto prendendosi quel Borja che avevano segnato sotto al suo nome.
La stagione sarà comunque fallimentare. Torna in campo a ottobre col Rayo B ma dopo neanche un minuto la clavicola fa di nuovo crac e lo costringe a un altro stop: non sarà l’ultimo dispiacere che gli darà. Perde l’unico familiare che era rimasto con lui in Spagna, ma grazie alla vicinanza di alcuni suoi connazionali, uno su tutti Diego Costa, venuto in prestito dall’Atlético Madrid per sei mesi, riesce a superare anche questo. A fine anno avrà al suo attivo appena quattro gol nel filial di Jimeno, ma adesso è pronto per esplodere definitivamente sotto l’ala protettiva di Paco Jémez, il nuovo tecnico del Rayo, che lo porta con sé in prima squadra. Un tecnico innovativo che deve salvarsi ma vuole farlo giocando bene e detenendo il possesso palla contro chiunque (lo toglierà al Barcellona dopo quattro anni in cui i blaugrana avevano sempre imposto la supremazia territoriale), ma soprattutto usando il metodo del bastone e della carota. In estate Tamudo va in scadenza, Michu emigra in Premier League e Diego Costa rincasa al Calderón, ma fra gli arrivi c’è un certo Nicki Bille Nielsen, di proprietà del Villarreal (e che abbiamo già incontrato nella storia di Víctor Ruiz).
Debutta alla seconda giornata al Benito Villamarín contro il Betis: assist per Piti e rete dell’uno a due finale. È iniziata col botto la sua carriera tra i grandi. La sua crescita è esponenziale, Jémez lo utilizza sempre più, a volte prima punta ma più spesso esterno destro per sfruttare il suo tocco delicato. Ma l’ennesimo infortunio alla clavicola lo costringerà a chiudere la stagione con qualche mese di anticipo. Comunque sia grazie ai suoi sette gol e prestazioni importanti, a soli venti anni diventa una delle rivelazioni della Liga convincendo l’Atlético Madrid a puntare su di lui. Il resto è storia nota. La sua avventura rojiblanca è stata per lo più deludente, fra molti micro-infortuni e gente del calibro di Diego Costa e David Villa a sbarrargli la strada ha avuto molte difficoltà a imporsi. Un po’ quello che è accaduto nei suoi mesi in prestito al Betis, in una squadra condannata alla retrocessione già in inverno, salvo poi risollevare le sorti della sua carriera negli ultimi tempi al Rayo Vallecano. A Vallecas ha segnato sette reti nel solo girone d’andata (di cui due triplette), ma nessuna in quello di ritorno nel quale però, tra problemi alla coscia e all’inguine, ha giocato una sola partita intera.
A dispetto di tutto ciò ha ancora solamente ventidue anni e personalità da vendere. Ma soprattutto è il classico giocatore che piace a Marcelino: tecnico, veloce, pungente in corsa e con un’intelligenza tattica e una propensione al sacrificio che gli permettono di capire sempre quale sia la cosa migliore da fare in campo. Senza le pressioni di una realtà importante come quella di Madrid e senza la sfortuna di stare più in infermeria che in campo, potrebbe dare il là alla sua carriera sotto la guida di un allenatore che lo ha sempre apprezzato e che vuole sfruttare le sue potenzialità per ottenerne il massimo.