17 luglio 2011, Estadio Brigadier General Estanislao López di Santa Fe. Per i quarti di finale della Copa America si trovano difronte Argentina e Uruguay, due fra le massime espressioni del calcio sudamericano, divise da una rivalità, talvolta definita – non erroneamente – odio, che va oltre il rettangolo verde. Gli argentini si reputano superiori (in tutto) ai cugini uruguaiani, che nel calcio hanno trovato spesso terreno fertile per riscattarsi nei confronti dei loro “vicini di casa”. Tutto il popolo argentino sogna, dopo diciotto lunghi anni, di tornare a dominare il continente, evento che non avviene dai tempi di Omar Gabriel Batistuta, Re Leone in terra ecuadoregna nel lontano 1993.
L’uomo di punta dell’Albiceleste non può che esser lui, Leo Messi, capace di fare incetta di trofei – sia individuali che di squadra – col Barcellona. Ma per il popolo argentino l’eroe, l’idolo da idolatrare, l’uomo in grado di accendere la passione di una nazione intera, non è certamente la Pulce. L’hombre del pueblo è solo uno: Carlitos Tevez, per tutti l‘Apache. Non tutti lo amano in Argentina, sia ben chiaro. Chiedete ai tifosi del River, sbeffeggiati con il gesto della gallina dopo che l’Apache li purgò in un Superclasico. Loro, Carlitos, non lo idolatrano di certo. Eppure, quando indossa la maglia della Seleccion anche i tifosi dei Millonarios sembrano sedotti dalla tempra dell’uomo venuto dai quartieri poveri, un calciatore in grado di unire talento e grinta come pochi altri al mondo. Messi è la ciliegina sulla torta, un talento divino e sopraffino. Ma non rappresenta la gente, non ha il carisma di Tevez ed è cresciuto lontano dalla sua terra natia. E oltretutto, pare soffra maledettamente la presenza dell’attaccante del Manchester City.
Il quarto di finale contro l’Uruguay non tradisce le attese: tanti falli, scontri al limite del regolamento ed un rosso per parte. Tevez, però, non è nell’undici titolare. Dicono sia stato Messi a non volerlo al suo fianco, perché la presenza dell’Apache ne limiterebbe il raggio d’azione. Leggende, forse. Ma Batista, selezionatore tecnico dell’Argentina, decide di farlo entrare sul rettangolo verde solo all’ottantacinquesimo minuto. La gara è ancora in bilico, ferma su un 1-1 maturato nei primi venti minuti del match. Carlitos entra, come al suo solito, fra l’ovazione del pubblico di casa, che lo erige a salvatore della patria, l’uomo in grado di riscattare un ventennio di delusioni. E lui non tradisce le attese. Tanta garra, impegno massimo e anche un cartellino giallo. Ma il suo apporto non cambia il risultato: si va ai calci di rigore.
L’uomo del popolo non può tirarsi indietro, anche perché nel Manchester City capita, spesso, che debba prendersi la responsabilità del tiro dal dischetto. E’ il terzo rigorista. Prima di lui, quattro tiri, quattro goal. Tevez si avvia, sicuro, sul dischetto. Dinnanzi a sè trova Muslera, portiere non sempre impeccabile, con una discreta fama di para rigori. Carlitos prova ad incrociare sul secondo palo, ma la conclusione non è angolata e il portiere della Lazio riesce ad acciuffare la sfera. E’ il gelo. A Santa Fe non fa certamente caldo, ma la temperatura sugli spalti diventa improvvisamente scandinava, simile ad un rigido inverno norvegese. Tevez si riavvia a capo chino verso la metà campo. E’ triste. Ma lo sarà ancora di più pochi minuti dopo, quando l’Argentina verrà condannata all’eliminazione dal suo errore, l’unico dell’intera serie.
La storia fra l’hombre del pueblo e la Seleccion pare terminare proprio lì, a Santa Fe, quarti di finale di una Copa America che gli argentini, organizzatori dell’evento, erano assolutamente convinti fare propria. La carriera prosegue. La stagione al Manchester City è turbolenta, segnata dal famoso litigio con Mancini all’Allianz Arena che lo allontanò per diversi mesi dal rettangolo verde, ma si chiude con la conquista della Premier League. Dopo un altro anno con i Citizens, Tevez approda in Italia e diventa il leader indiscusso della Juventus, l’uomo in grado di contribuire al definitivo salto di qualità dei piemontesi. Passano tre anni fra Manchester e Torino, tre stagioni agonistiche ricche di soddisfazioni senza, però, la possibilità di vestire la maglia, tanto amata, dell’Albiceleste. Sabella, nel frattempo subentrato a Batista, non ne vuol sapere di Carlitos, ritenuto una mina vagante che può minare gli equilibri di squadra e spogliatoio, già di per sé molto labili.
Il tempo scorre. L’Argentina, senza di lui, ha sfiorato la conquista del Mondiale, per di più nella terra, non propriamente amichevole, degli acerrimi rivali brasiliani. Ma un goal di Gotze, e qualche errore di troppo sotto porta di Higuain e Messi, hanno riportato i tedeschi davanti a tutti, ventiquattro anni dopo la vittoria nel Belpaese. L’opinione pubblica vuole la conferma di Sabella sulla panchina dell’Albiceleste, ma il tecnico argentino dice basta e lascia la direzione della Seleccion. Al suo posto arriva El Tata Martino, reduce da una stagione in chiaroscuro con il Barcellona. L’ex c.t. del Paraguay, a differenza del suo predecessore, si ricorda di Carlitos. Lo inserisce poco alla volta, gli fa capire quali sono le gerarchie in campo: il titolare è Leo, lui è la prestigiosa riserva di lusso. Tevez accetta. E si mette subito a disposizione del c.t., che apprezza il comportamento impeccabile del giocatore (decisamente maturato rispetto a quattro anni prima) e gli riserva un posto per il Cile, con il chiaro intento di interrompere il digiuno di trofei argentino e, ventidue anni dopo, riportare la Copa America in Argentina.
La gente, nonostante quel rigore maledetto sbagliato contro l’Uruguay, è ancora dalla sua parte ed è felice per il ritorno del figlio prediletto. Il suo impiego nella kermesse continentale è con il contagocce, come da accordi pre-manifestazione col commissario tecnico. Carlitos non si lamenta. Anzi, dà tutto sé stesso negli spicchi di gara che El Tata gli concede, conscio, quest’ultimo, di poter far affidamento ad occhi chiusi sull’ex juventino. Nel quarto di finale contro una rognosissima Colombia, brava a limitare sia Messi che Aguero, El Tata decide di buttarlo nella mischia al posto del Kun. Minuto settantatré. Sembra quasi un dejà vù. A Santa Fe, quattro anni prima, Tevez prese il posto proprio di Aguero. E anche oggi, come allora, ci si gioca l’accesso alle semifinali della Copa America. Anche oggi, come allora, l’Argentina prova a vincere il match, ma non riesce a trovare la via del goal. E’ sfortunata, l’Albiceleste. Un clamoroso palo colpito, le parate del portiere colombiano Ospina, tutto sembra ricalcare quella nefasta notte di quarantasette mesi prima. E il destino, beffardo, porta il match ai calci di rigore. Anche oggi, come allora.
Carlitos non è nella cinquina iniziale. Non si sa, e forse non lo sapremo mai, se per scelta propria o perché El Tata, consultatosi con Mascherano (allenatore in campo e non solo), ha deciso così. La lotteria dei rigori è emozionante, palpitante: bella per chi non parteggia per i Cafeteros o la Seleccion, da infarto per i tifosi delle due squadre. L’Argentina sembra ormai certa del passaggio quando Biglia, ultimo rigorista in assoluto, ha la possibilità di mettere a segno il quinto penalty ed approfittare dell’errore di Muriel, quarto rigorista dei colombiani. La conclusione del laziale, però, termina abbondantemente a lato: si prosegue ad oltranza.
Tutti si aspettano che il sesto rigorista di Martino sia lui, l’Apache. Dei giocatori che non si sono presentati dal dischetto, d’altronde, è indubbiamente quello con le doti tecniche migliori. E poi, nonostante qualche errore dagli undici metri, non è proprio uno sprovveduto dal dischetto. Invece, con un colpo di scena decisamente inatteso, si presenta Rojo, un terzino, che sbaglia e non capitalizza l’errore commesso, pochi secondi prima, da Zuniga. Il settimo turno, però, non può che essere il suo. Non ci sono alternative. Ci sarebbe Mascherano, giocatore con grandi doti di leadership ma certamente non un rigorista. La sfida, a distanza, è con Murillo, neo-acquisto della Beneamata. Un nuovo interista, il colombiano, contro lui, ex juventino. Una sorta di derby d’Italia che, purtroppo, non vedremo mai nel nostro campionato, perché Carlitos ha deciso di tornare a casa, al Boca.
Il neo-nerazzurro, un difensore, si presenta sul dischetto con gli occhi terrorizzati, che sembrano dire “qui mi ci hanno mandato contro la mia volontà“. Non è un rigorista. E si vede. La palla termina abbondantemente sopra la traversa, lui si gira e maledice il dischetto. Ma la colpa è sua. E dei piedi non particolarmente vellutati di cui dispone. Tocca all’Apache, l’uomo più amato dal popolo argentino. La corsa verso il dischetto è meno sicura di un tempo, pesano i ricordi di quattro anni prima, la possibilità di bissare un errore che, potenzialmente, potrebbe costare l’onta dell’eliminazione all’Albiceleste. Ospina, oltretutto, è un osso duro, anche se non ha ancora parato un rigore (Biglia e Rojo non hanno inquadrato lo specchio della porta).
La rincorsa è centrale, quasi a non voler far capire qual è l’angolo di tiro scelto. Ma non ci sarà alcuna angolazione. Tevez, infatti, decide di concludere centralmente e beffa Ospina che, replicando quanto fatto da Muslera quattro anni prima, si è tuffato alla propria destra. E’ gol. L’Argentina vola in semifinale. E a decidere la qualificazione è stato il giocatore che quattro anni prima, invece, l’aveva involontariamente condannata all’eliminazione. Un giocatore certamente non qualunque. Un giocatore prima di tutto uomo. Anzi, l’hombre del pueblo, quel popolo che adesso festeggia con lui per la chiusura di un cerchio, non propriamente magico, durato quattro anni. Per il lieto fine, invece, la data è già scritta: 4 luglio 2015. Cile e Brasile, permettendo.