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I 62 operai morti per partita e il sistema kafala: le contraddizioni nel Mondiale in Qatar

Siamo onesti: quando nel dicembre 2010 la FIFA ha designato il Qatar come paese ospitante dei Mondiali di calcio nel 2022, abbiamo un po’ tutti storto il naso. Bene lo spirito di globalizzazione così come l’interno di espandere il gioco del calcio andando verso nuove frontiere, ma qui, in questa decisione, c’è poco di nobile. Il calcio (come si legge questi giorni) sta andando sempre più alla deriva, smosso da giri di soldi, da introiti e da guadagni sottobanco. Ricordiamoci che l’ultima Supercoppa italiana, quella tra Juventus e Napoli, è stata giocata a Doha, capitale del Qatar. A dicembre.

Sì perché l’altro enorme quesito dell’edizione esotica è proprio questo: non più in estate, ma si giocherà in inverno per ovvie questioni climatiche. E voi immaginate: se è proibitivo per 22 ragazzi in salute rincorrere un pallone sotto al sole che picchia, quanto dev’essere infernale per i lavoratori, ora, impegnati nella costruzione degli stadi sotto i 50°?

Infatti, oltre alle voci che si rincorrono su presunte corruzioni (che poi non sono tanto presunte dopo la squalifica a vita di Mohamed Bin Hammam, capo dell’Asian Football Confederation), gestioni illecite dei finanziamenti e Mondiali comprati dietro rilascio di tangenti, quello che preoccupa maggiormente sono le condizioni degli operai migranti. Morti a causa della scarsa (forse assente) sicurezza degli impianti, sottopagati, sfruttati, pagati in ritardo, morti a causa di infarto, suicidati. Al momento, si stima che siano già morti 1200 operai, un numero che aumenta quotidianamente, anche mentre si legge questo pezzo ed è un dato che fa impressione in relazione, per esempio, ai due Mondiali scorsi: durante Brasile 2014 sono morti 10 lavoratori, 2 in Sudafrica 2010. E secondo l’organizzazione International Trade Union Confederation, su un totale di 1.5 milioni di operai, moriranno oltre 4mila persone. Insomma, una partita costerà in media la vita di 62 operai.

qatarqatar

La maggior parte sono ragazzi, uomini provenienti dall’India, dal Nepal, dal Bangladesh e dallo Sri Lanka che lasciano le proprie nazioni e famiglie per cercare lavoro nei cantieri. Ma superato il confine, perdono passaporto, diritti e identità: si ritrovano, in un rapporto di costrizione, alle dipendenze di agenzie di reclutamento, sponsor e datori di lavoro che li ricattano con promesse di salari quasi mai mantenute. E’ il sistema “kafala, conosciuto e diffuso tra i Paesi del Golfo arabo, che pone l’operaio alla mercé del suo capo. In un recente rapporto diffuso da Amnesty International si legge come il Qatar stia facendo poco per rivedere la politica di gestione degli operai, nonostante i molteplici richiami dalle varie associazioni. Nel rapporto si legge la testimonianza di Ranjith, un lavoratore migrante dello Sri Lanka, che non riceve il salario dal momento del suo arrivo, ormai cinque mesi fa. Non ha documenti d’identità né un contratto e alloggia in un campo per lavoratori nell’area industriale, affollato e malsano. Ma non può andare dalla polizia perché lo arresterebbero e lo espellerebbero per mancanza di documenti.

Morti silenziose che hanno spinto alcuni architetti del gruppo “1week1project” a progettare una torre-memoriale per ricordare queste vittime. Un blocco per ogni operaio morto per un’idea che rimarrà tale, ma dal forte impatto comunicativo: più alto è il numero dei decessi, più alta sarà la costruzione e l’ipotesi è quella di raggiunge 1.5 km di altezza.

Ma non solo: il sito BoredPanda ha raccolto alcuni disegni postati dagli utenti che hanno dato vita ad una campagna di “anti-pubblicità”, modificando i loghi delle più famose e importanti aziende e multinazionali che, nonostante tutto, continuano a supportare i Mondiali in Qatar. Il tutto, mentre si aspetta una reazione dura da parte della FIFA, ma c’è da starne certi che in questi giorni, tra scandali ed elezione del nuovo presidente, la condizione degli operai migranti del Qatar passerà in secondo piano. Come sta succedendo da cinque anni, oramai.

Giovanni Sgobba

Giornalista, nato a Bari in un ambiente dove gli si diceva di tifare per i bianco-rossi, ha seguito il suggerimento alla lettera appassionandosi all'Union Berlin. Fidanzato ufficialmente con il club dal 12 agosto del 2012 quando ha assistito ad una partita per la prima volta nello stadio An der Alten Försterei. Ama i cappelli: i suoi, quello di De Gregori, di Charlie Brown, di Alan Grant e di Nereo Rocco.

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Giovanni Sgobba
Tags: fifaqatar

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