“So che sono perché so che c’è l’altro” .
J. Tischner
El Gringo Gordo, come lo chiamavano in Argentina. Il Re Leone come lo chiamavano in Italia. Calciatore immenso, di rara classe agonistica, attaccante che sapeva segnare di destro, di sinistro, di testa, da calcio da fermo su punizione con l’unica pecca dei rigori, Gabriel Omar Batistuta (classe 1969) è da considerarsi senza dubbio uno dei giocatori di calcio più importanti degli anni ’90. Sulla testa una folta criniera biondo-castana che terrorizzava i difensori avversari una volta che lui, col fiuto innato del gol, teneva la palla tra i piedi. Nato ad Avellanda, in Argentina, da padre macellaio e madre segretaria scolastica, Gabriel, con alle spalle una generazione di origine italiana, a cominciare dai suoi trisavoli, comincia a frequentare i campetti di calcio di Reconquista (paese in cui si traferì all’età di sei anni) tardi rispetto ai suoi coetanei. La sue passioni erano infatti la pallavolo e il basket che applicava nella palestra di scuola. Ma poi, regalatogli da un amico un poster di Maradona, guardando quel grande idolo argentino, inizia ad entrare nel mondo del calcio verso i 13-14 anni quando con i suoi amici fa parte dell’amatoriale formazione Grupo Alegria. Segna e parecchio anche. A 18 anni è già titolare nel club di Rosario, guidato dal tecnico Bielsa, Newell’s O. B. con cui raggiunge al primo anno una finalissima di Copa Libertadores persa però con il Nacional Montevideo.
L’anno successivo passa alla calda piazza del River Plate allenato da Passarella che lo lascia stranamente spesso in panchina. L’essere fuori rosa è un blocco di Kryptonite per Batistuta che non ci pensa due volte ad andarsene nel 1990 per vestire la maglia dei rivali del Boca Juniors. Con il club vince finalmente un meritato titolo in campionato e raggiunge la semifinale di Coppa Libertadores, subito dopo la famosa rissa in campo con il Colo-Colo. Il 1991 è un anno importante per Gabriel. Trascina infatti con i suoi mirabolanti 6 gol l’Argentina alla conquista della Copa America in Cile segnando al Brasile di Careca e alla Colombia di Valderrama. Nella stessa estate per 12 miliardi di lire dalla tasca di Cecchi Gori passa alla Fiorentina. Inizia il più bello e duraturo sodalizio dell’argentino in una squadra di calcio. Per tutti i tifosi viola resta il giocatore più importante ad aver vestito la maglia di Firenze. Con 152 reti in 9 stagioni è l’attaccante viola più prolifico di sempre e le sue segnature, una media di 20 reti all’anno, lo consacrano come un attaccante cardine per la Serie A degli anni novanta. Eppure nella prima stagione Batistuta si trova smarrito in Italia e nel nostro campionato. Nascono, col passare del tempo, dei diverbi con Dunga, suo compagno di squadra ma a cominciare dal 1992 viene fuori il vibrante ruggito del Re Leone.
Nella Copa America di Ecuador ’93, segna 2 reti in finale contro il Messico ed agguanta il suo secondo titolo. Trascina i viola in serie A dopo una stagione in B nel 1993-94, viene convocato ai suoi primi mondiali di calcio in USA nel ’94 e segna 3 gol con l’Argentina contro la Grecia nella famosa gara dell’urlo alla telecamera di Maradona (4 reti in totale) fermandosi poi agli ottavi di finale. La stagione successiva diventa capocannoniere del Campionato con 26 gol, nell’anno dello scudetto bianconero. L’anno successivo vince la Coppa Italia contro l’Atalanta e la Supercoppa Italiana contro il Milan e in entrambe le gare il nostro Batigol, soprannome che gli calza a pennello, è decisivo. Passarella, che pur non ha ottimi rapporti con Gabriel, è costretto di forza a convocarlo per i Mondiali di Francia ’98. Qui realizza un’altra tripletta, la seconda di fila in un mondiale proprio come Kocsis, Fontaine e Muller, questa volta contro la Giamaica e trascina l’Argentina fino ai quarti dove verrà inchiodata dall’Olanda 2-1.
Inizia da cui una serie di infortuni alla caviglia che però non gli strappano l’istinto killer del gol. “Sfiora” lo scudetto, dopo un grande girone d’andata, nella stagione 1998-99, quella con Trapattoni allenatore e l’ultimo anno, il più doloroso per Batistuta è il 2000, momento in cui saluta Firenze e i tifosi e passa alla Roma per 18 miliardi di lire durante la presidenza Sensi. Sciarpe, magliette e addirittura una sua statua, sono solo alcuni degli affetti più cari che i tifosi viola hanno tenuto nel cuore per tutti quei 9 anni di emozioni. Nella capitale Batistuta, affiancato da grande personalità come Totti, Montella e Cafù e sotto le redini di Capello conquista il tanto sognato campionato, nel 2001 dopo anni di rincorse a vuoto, segnando 20 reti e diventando subito l’idolo dei giallorossi. Le due stagioni successive lo vedono incappare in numerosi problemi legati sempre alla caviglia e proprio dal 2002, anno del suo ultimo mondiale, quello in Corea del Sud e in Giappone, dove si fermerà soltanto al primo turno con un gol di testa alla Nigeria, incomincia la sua parabola discendente. Nel 2003 pochi mesi a Milano con la maglia dell’Inter e poi in Arabia, nel club di Al-Arabi, per poi appendere le scarpette al chiodo nel 2006. E’ la fine di un’era, quella dei gol di Batistuta.
Il capocannoniere viola, il bomber argentino con 56 reti, l’attaccante modello che tutti gli allenatori vorrebbero avere. Suo discendente, in forma minore per quanto concerne il numero dei gol fu Crespo ma la classe di Batistuta, questo “animale da gol” come diceva Maradona è irraggiungibile. Il dopo calcio di Gabriel è fatto di numerose attività: commentatore sportivo, giocatore nel 2009 di polo, allenatore di calcio, direttore di un suo marchio di vestiti chiamato GB, sindaco per un giorno di Firenze, il 12 gennaio 2006 quando Domenici gli affida le chiavi della città. “Se fossi andato a giocare nel Manchester Utd o nel Barcellona forse avrei vinto il pallone d’oro ma il mio desiderio era restare a Firenze e vincere”. Che dire di Gabriel Omar Batistuta?. Le parole sarebbero tante, i discorsi troppi. Forse sarebbe meglio rivedere i suoi gol su Youtube in silenzio, proprio come i tifosi del Barcellona che al Nou Camp nel ’97 vennero azzittiti un istante da una sua fucilata all’incrocio dei pali durante la semifinale di Coppa delle Coppe. Silenzio e poi applausi.