LUIS ARAGONES – Vienna, 29 giugno 2008. La Spagna, quarantaquattro anni dopo, disputa nuovamente una finale “pesante”, la prima fuori dai confini nazionali; nel 1964, infatti, le Furie Rosse divennero campionesse d’Europa superando la Russia in un Santiago Bernabeu gremito in ogni ordine di posto. Di tempo ne è passato davvero parecchio. Nove lustri sono decisamente tanti e l’attesa in terra iberica è spasmodica. I segnali sono, comunque, positivi: nei quarti di finale, la squadra capitanata da Casillas ha estromesso l’Italia, storica “bestia nera” degli spagnoli. La fiducia è tanta, anche se l’avversario, la Germania di Low, incute timore. Dopo un avvio equilibrato, la Spagna prende il comando del match e al trentatreesimo, grazie ad una rete dell’infallibile Torres, mette a segno il gol che vale il titolo di Campione d’Europa.
Per la Spagna intera è una vera e propria liberazione: gli esteti del bel calcio, quelli che protestano per una vittoria “macchiata” da un pessimo spettacolo, sono finalmente vincenti. Alla guida di quel gruppo c’è un allenatore corpulento, dal carattere tutt’altro che facile, vate del possesso palla a oltranza. D’altronde, “se il pallone ce l’abbiamo noi, gli altri non ci possono fare male”. Quell’uomo è José Luis Aragonés Suárez Martinez, per tutti, semplicemente, Luis Aragonés. Da cinquant’anni nel mondo del calcio, il tecnico di Madrid, prima da giocatore e poi da allenatore, ha girato la Spagna il lungo e in largo, da Alicante a Maiorca, passando per Oviedo,Siviglia (entrambe le sponde), Valencia e Barcellona (sia con il Barça che con l’Espanyol), ma con una squadra nel cuore: l’Atletico Madrid. Con i colchoneros, infatti, Luis ha scritto le pagine più belle della carriera da calciatore (123 gol messi a segno, 3 Liga e 2 Copa del Rey) e allenatore (1 Liga, 4 Copa del Rey), con un trionfo che lo rese orgoglioso d’appartenere alla famiglia della “Madrid povera”: la promozione in Liga ottenuta nel 2002.
Nel 2004 viene chiamato dalla Federazione per risollevare il destino della “Roja”, incarico che accetta con entusiasmo, pur conscio del gravoso compito che lo attende. Dopo lo sfortunato mondiale tedesco, sono in parecchi a chiedere l’esonero di Aragones. Ma lui, imperterrito, prosegue per la sua strada e sfida l’opinione pubblica con un gesto ritenuto, dai più, un sacrilegio: estromette Raul, bandiera del Real, dalla nazionale. La storia di Aragones, e della nazionale spagnola, svolta paradossalmente in quell’istante: la “Roja” ottiene il visto per l’Europeo mettendo in mostra un calcio decisamente piacevole, che replica pedissequamente durante la fase finale disputata in Austria e Svizzera. La finale contro la Germania, vinta dominando i Panzer, è solo l’epilogo di un progetto di durata quadriennale, segnato dalla crescita di grandi giocatori e dalla sagacia tattica del paffuto uomo di Hortaleza.
Aragones, quindi, è stato l’uomo che ha cambiato il destino della nazionale spagnola, quella che, a tutt’oggi, detiene il titolo di campione del mondo e di campione europeo (due vittorie consecutive). La sua morte, avvenuta stamattina all’età di settantacinque anni, ha toccato il cuore di molti amanti del calcio spagnolo e internazionale. “Marca”, nell’edizione on-line odierna, l’ha ricordato come “il padre del Tiki Taka”, marchio indelebile dell’ultimo decennio del calcio spagnolo. Ha diviso l’opinione pubblica, non è stato amato dalla sponda madrilena “merengues”, ma ha sempre agito secondo coscienza, coerentemente alle proprie idee tattiche e personali. E la storia, volente o nolente, gli ha già assegnato un titolo che vale più di mille parole, quello di “padre” dell’invincibile armata delle Furie Rosse. Le più vincenti della storia del calcio mondiale. Ciao, “Sabio de Hortaleza”. E grazie di tutto.