Le Olimpiadi di Berlino del 1936 sono solitamente associate, in modo indissolubile, al nome di Jesse Owens. Lui, il “negro” statunitense, riuscì a conquistare 4 medaglie d’oro (100 e 200 metri, 4 x 100 e salto in lungo) dinanzi ad un incredulo Adolf Hitler, smanioso di mostrare al mondo la superiorità razziale degli “ariani” e di trasmettere allo stesso tempo l’immagine di un paese forte e coeso, la Germania del Terzo Reich, tramite un veicolo “pubblicitario” praticamente unico, come appunto i Giochi Olimpici. Owens, in particolare, primeggiò nel salto in lungo battendo lo stra-favorito idolo di casa, Lutz. Quattro schiaffi che passeranno alla storia.
Quelle, comunque, non furono le uniche umiliazioni che il folle dittatore tedesco dovette subire.
Una, cocente, arrivò dal torneo di calcio. La Germania, che al tempo non contava sul professionismo e quindi poté schierare i migliori calciatori dell’epoca, era reduce dal terzo posto al Mondiale di due anni prima. Di quella squadra, ben cinque elementi erano presenti nell’undici titolare che affrontò la Norvegia nel match inaugurale. Al Poststadion di Berlino erano presenti 55mila spettatori; l’attesa nel paese era altissima, anche per il “richiamo” della diretta televisiva “sperimentale”. Era, insomma, una partita da vincere; come tutte quelle successive e, di conseguenza, la medaglia d’oro (che conquistò poi l’Italia di Pozzo).
Vinse, però, la Norvegia con i suoi ragazzotti alti e biondi, più alti e più biondi dei colleghi tedeschi. Finì 2-0, Isaksen firmò una doppietta, il veterano Tipen Johansen fu un gran protagonista, Jorgen Juve un baluardo insuperabile a centrocampo. L’eccesso di fiducia dei padroni di casa fece il resto.
Il commissario tecnico della Germania, Otto Netz, fu subito messo sulla graticola e pagò quella sconfitta con la vita. Al termine della Seconda Guerra Mondiale fu catturato dai russi e fatto prigioniero. Nessuno, in Germania, si preoccupò di Otto Netz: lo lasciarono morire nel campo di concentramento di Oranienburg, nel 1949, di meningite.
Ad Assi Halvorsen, tecnico della Norvegia, non andò tanto meglio. I tedeschi fecero pagare caro quell’affronto: quando la Germania invase il paese scandinavo, nell’aprile del 1940, Halvorsen fu catturato, dopo aver lottato contro le milizie invaditrici. Prima fu deportato nel campo di concentramento di Natzweiler, poi in quello di Vaihingen da dove fu poi salvato, il 5 aprile 1945, dagli svedesi che riuscirono ad accordarsi con Himmler per uno scambio di prigionieri. Ne uscì, comunque, a pezzi. Non recuperò mai uno stato di salute accettabile, finendo per morire soltanto dieci anni dopo.