La vita di ogni uomo è una via verso se stesso
H. Hesse
Esistono nella storia due Bela. Il primo è il Lugosi, il più famoso Dracula del cinema, quello dallo sguardo satanico, pieno di lussuria e sete di sangue, quello che colorava il bianco e nero degli horror degli anni ’30 e ’40. Ma di questo non ci occuperemo. Ci addentreremo invece nella mitica esistenza del secondo Bela, di Guttmann, l’allenatore ungherese naturalizzato austriaco che portò il suo nome e quello del Benfica nell’Olimpo del calcio. Carismatico e solare ma dal cuore di ferro, Bela fu annoverato nel 2007 dal The Times come l’ottavo allenatore più influente di sempre. Nato a Budapest nel 1899 si ritrovò a giocare nel ruolo di centrocampista nel MTK Budapest con cui vinse due campionati ungheresi nel ’20 e nel ’21. Fu ceduto pochi anni dopo nell’Hakoah Vienna dove vinse nel ’25 il suo terzo campionato, in un periodo non felice per l’Europa con l’avvento del fascismo e del nazismo, proprio quando il filo nazista Horty saliva al potere in Ungheria. Le origini giudaiche di Bela furono un grosso problema per la sua carriera, soprattutto con l’avvento della seconda guerra mondiale, periodo nel quale di Guttmann si sa ben poco: c’è chi lo vide in Brasile, chi in Svizzera, chi a Parigi come rifugiato.
“Dio mi ha aiutato” disse in una intervista. E probabilmente lo aiutò anche nel suo intervallo newyorkese quando, dopo una brillante laurea in psicologia ottenuta a Vienna (patria di Freud), giocò in diversi team della Grande Mela, lavorando anche come insegnante di danza per racimolare qualche soldo in più (cosa che i giocatori moderni si sognerebbero di fare, ma come si sa i tempi cambiano) e trovandosi nel pieno della Crisi del 1929, portandolo quasi al lastrico finanziario. E dalla cenere l’araba fenice risorge, come narra la leggenda. Infatti è dalla fine della guerra che Bela rinasce diventando uno degli uomini più importanti del mondo del calcio. Centrocampista promettente prima e allenatore nuovo e fresco poi, Guttman tornò a Vienna alle redini della sua vecchia squadra, l’Hakoah ma fu licenziato poco tempo dopo per via l’invasione hitleriana in Austria del ’39, sempre per via delle sue radici ebraiche e tornato in Ungheria allenò l’Ujpest di Budapest dove vinse il primo scudetto da mister nello stesso anno e il successivo nel ’47. L’anno dopo approdò al Kispest dove un giovane Puskas lo comandò a bacchetta, costringendo il povero Bela a ritirarsi (addirittura seguì una partita del suo team dalla tribuna per via di un battibecco con lo stesso ercoleo attaccante ungherese con il quale non si trovava mai d’accordo nelle scelte tattiche).
“L’allenatore è come un domatore di leoni, se perdi il loro rispetto sei finito”. Era questa la filosofia di Bela e, perduto il rispetto della squadra, abbandonò cappello e frusta e se ne andò in silenzio con la coda fra le gambe. Ma non è ancora finita, Guttmann e come un gatto dalle molte vite, una specie di Idra che più le tagli le teste e più ricresce. Questa volta è l’Italia la sua nuova patria. Venne chiamato a guidare il Padova, la Triestina, il Milan (dopo una parentesi deludente in Argentina e a Cipro) e infine il Vicenza. Gli anni italiani non furono positivi dal punto di vista del palmares ma portarono il nome di questo piccolo grande ungherese anche nella nostra penisola. Fu senz’altro il Milan la squadra più tecnicamente rilevante dal punto di vista calcistico che Bela guidò in Italia, team che vedeva la corazzata Gre-No-Li e Schiaffino. Bela non riuscì in ogni caso, almeno coi rossoneri, a conquistare il campionato italiano Nel ’55 andò a Vicenza dopo essere stato licenziato dal Milan per controversie con la dirigenza ma anche qui non trovò il rispetto cercato e voluto. La stessa cosa accadde con l’Atletico Madrid. Per molti Bela è solo un allenatore nomade, senza carattere e personalità. Ma questi molti si sbagliarono.
Dal campionato paulista conquistato con il San Paolo nel ’58, Guttmann inanellò una serie di successi senza precedenti per un allenatore che lo portarono alla conquista dell’Europa. Dal punto di vista tecnico-tattico in Brasile creò il suo Golem, il famoso 4-2-4, modulo grazie a cui la nazionale carioca vinse il mondiale del ’58 in Svezia, estrapolandolo proprio dal San Paolo di Bela, modulo che aveva l’intenzione di rafforzare la difesa arretrano il mediano al ruolo di stopper e puntando molto sulle ali e sugli attaccanti. La filosofia vincente del San Paolo, il “passa-repassa-chuta” (passa, ripassa e tira) con allenamenti circensi caratterizzati da pneumatici e cerchi attorno alle porte per costringere i giocatori a centrare meglio le circonferenze ed a migliorare così la mira, fu anche l’ossigeno che il Porto prima e il Benfica poi respirarono nei loro anni con Guttmann. Nel ’59 arrivò il primo campionato portoghese vinto col Porto e successivamente le vittorie più importanti della carriera dell’allenatore, quelle alla guida del Benfica. Dopo il campionato vinto nel ’60, con i portoghesi conquistò per due anni di fila la prestigiosa Coppa dei Campioni.
Il 31 maggio 1961 Bela alzò il suo primo trofeo importante dopo aver sconfitto il Barcellona nella finale di Berna per 3 a 2 grazie a leoni come Santana, Auguas ed Augusto. Successo bissato anche l’anno successivo dove all’Olimpico di Amsterdam sconfisse l’armata del Real Madrid di Puskas e di Di Stefano (che aveva già vinto cinque competizioni di fila) per 5-3, finale impeccabile con un immenso Eusebio, giocatore che il Benfica aveva acquistato pochi mesi prima e che sarebbe divenuto nel giro di pochi anni una leggenda. Oltre la seconda Coppa dei Campioni, Guttmann lo psicologo alzò anche il trofeo nazionale della coppa di Portogallo, sempre nel ’62. Il Freud del calcio ora è uno degli allenatori più vincenti dello sport. Niente sesso prima delle partite, niente raffreddori che potevano causare problemi in campo per via delle difficoltà di respirazione, Bela era, oltre che un allenatore e psicologo (e indovino, basti pensare alla famosa “maledizione” che ha lanciato sul suo Benfica e della quale abbiamo parlato approfonditamente in questo articolo), anche un medico della panchina, un chirurgo dell’allenamento col pallone, un uomo che, come sosteneva lui stesso, “non si preoccupava mai del gol degli avversari perché sapeva che prima o poi la sua squadra ne avrebbe fatto un altro”.
Il periodo portoghese si concluse al meglio fra elogi e, purtroppo, alcune critiche. Alla domanda di alcuni giornalisti del perché avesse vinto coppa di Portogallo e Coppa dei Campioni ma non il campionato, Bela rispose che non ci si può sedere col culo in due sedie, frase degna di un Groucho Marx o di un Woody Allen dei tempi migliori. Gli ultimi anni della sua carriera lo videro in Uruguay col Penarol, un ritorno momentaneo al Benfica nel ’65 e una passeggiata di salute e latte in Svizzera con il Servette. Ma Bela non ha più bisogno di scolpire il suo cognome nel marmo del calcio, ormai la sua intera figura è uno dei marchi indissolubili di questo sport. Verrà ricordato per sempre, come un Eschilo o un Caravaggio. O come Freud.
“Piove? Fa freddo? Fa caldo? Che importa? Anche se la partita fosse durante la fine del Mondo, tra le nevi del monte o in mezzo alle fiamme dell’inferno, per terra, per mare o per aria, loro, i tifosi del Benfica, vanno lì, appresso alla loro squadra. Grande, incomparabile, straordinaria massa associativa!”.