Barcellona, l’onore delle armi ti è dovuto

E’ solito per le grandi epoche chiudersi con battaglie altrettanto grandi, fatte di rumori assordanti, botti fragorosi e crateri che lasciano un solco nella storia. Un botto fragoroso martedì l’hanno fatto gli dei del Barcellona, schiantandosi nel cielo di Monaco a una velocità supersonica: un rombo scioccante, traumatico, indimenticabile. La partita di andata delle semifinali di Champions è stata forse quella che ha visto tramontare per sempre il prestigio internazionale di una squadra -per come l’abbiamo conosciuto in questi anni praticamente intoccabile.

Il nemico è stato matado, o meglio messo kaput, senza alcuna pietà, costretto a subire anche l’umiliazione degli olè finali da parte del pubblico; loro, quelli del Barça, che dello stile dei toreador ne avevano fatto una professione. Eppure, per chi in questi anni ha dimostrato di sapersi battere col massimo valore su tutti i campi d’Europa e del mondo, sarebbe forse stato giusto riservare una passerella più onorevole. Molti hanno infierito, oltre che allo stadio, sui vari social network, sulla fine del Barcellona, esaltando la supremazia del modello tedesco, del vorsprung durch technik, del lavoro costante e sistemico, fatto di meno soldi e di più pazienza, dove la programmazione e il basso profilo sono tutto per arrivare a certi risultati.

Diciamocela tutta, il Barcellona non piaceva più a molti già da un po’; vinceva, e già questo bastava, ma soprattutto negli anni aveva finito anche per diventare una squadra arrogante e presuntuosa, ossessionata dalla vittoria quasi fosse un mandato divino, cercata anche con mezzucci, o trovata grazie a qualche aiuto “dal cielo”: insomma, più che més que un club, un vero e proprio deus ex machina. Non solo, nel corso del tempo, soprattutto negli ultimi due anni, era finita per venire anche a noia, diventando monotona, sistematica, e prevedibile; motivo per cui in un certo momento è sembrato doveroso uscire quantomeno uno straccio di letteratura polemica che si opponesse, se non a un modello di vita, almeno a uno stile di gioco che aveva gettato su tutta Europa l’ombra di una dittatura da cui non si riusciva ad uscire, e che pareva essere l’unica alternativa.

Eppure, sarebbe ingiusto non voler concedere l’onore delle armi a una squadra che, impossibile negarlo, ha fatto ciò che più non si poteva per entrare nella storia del calcio, e dalla quale tutti, nessuno escluso, sono stati almeno una volta impressionati. Il Barcellona è stato, fintanto che non si è lasciato travolgere dalla vanità, e forse anche da un certo appagamento, un team ai limiti dell’umano, che ha materializzato su i campi d’erba ciò che prima era possibile vedere solo alla playstation. Un undici preso come riferimento di un gioco corale e armonico, nei suoi momenti migliori sublime ed esteticamente inarrivabile: da proiettare – come si dice – nelle scuole calcio per insegnare ai bambini come si gioca a pallone. Non solo. In un momento il cui il calcio italiano sta sconfinando in una mediocrità imbarazzante e preoccupante, dove ci si azzanna come cani sugli ossi di una cronaca vacua e amorfa, la squadra cresciuta da Pep è stata l’oggetto un dibattito calcistico che ha sconfinato dolcemente in un discorso sulla filosofia della vita stessa. Stare con i più forti perché è giusto che lo siano, o parteggiare per i più deboli, magari caldeggiando vittorie ingiuste, dove a detta di qualcuno, avrebbe perso il calcio?

Mito, o antimito, il Barcellona ha ridato al calcio il gusto di uno scontro mitologico fra uomini e titani, quello di “una sperimentante prodezza dello guardo più acuto che anela al terribile, come al nemico, al degno nemico su cui provare la sua forza, da cui apprendere cosa sia la paura”. Giocare contro il Barcellona rappresentava il termine di paragone ultimo di una sfida allo stesso tempo morale e immorale, dentro cui si scontravano la prevedibilità di un giudizio superiore già scritto, e l’imprevedibilità a cui è legato il gioco del calcio stesso. Lo sforzo estremo, e disperatamente umano, di dimostrare ancora una volta che il pallone è un corpo il cui moto è retto da leggi ingovernabili, in fondo anche dagli stessi titani. Ecco perché a questo nemico, ora sconfitto, bisogna rendere l’onore delle armi.

Che il mito poi sia davvero finito o no, questo ce lo dirà solo la prossima partita. Sempre che non riesca un’altra, miracolosa, remuntada.

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Intrattenitore nel mondo della comunicazione con la passione per il calcio d'antan, è un solista dentro e fuori dal campo, che predica da numero 7 ma razzola da numero 9. Fra il 98' e il 2002 ha inscenato ben 824 repliche dei Mondiali di calcio nella sua cameretta, e ricerca oggi la magia del calcio di un tempo nei campionati con un debito pubblico pericolosamente oltre la soglia di guardia.