A volte da una sola scintilla scoppia un incendio.
Lucrezio
Molto prima che Kim Jong-un facesse parlare di sé cavalcando, in una proiezione ipotetica del suo mondo dei sogni, la bomba atomica, proprio come il T. J. King Kong di Sam Pickens nel capolavoro kubrickiano Il dottor Stranamore, la Corea del Nord ha avuto per molto tempo, anzi lo ha tutt’oggi, un uomo simbolo dell’estremo continente asiatico. Il suo nome è Pak Doo-Ik, classe 1942, centrocampista della nazionale coreana degli anni ’60, che deve la sua fama ad un gesto, forse il suo unico significativo gesto nell’ambito della sua carriera calcistica e, molto probabilmente, dell’intero mondo sportivo dell’Asia: il gol che eliminò l’Italia nei Mondiali di calcio del 1966, quelli giocati in Inghilterra. Dopo quel lancio di fionda al Golia italiano guidato da Fabbri, addirittura Pak e la sua squadra furono protagonisti di un interessante documentario firmato da due inglesi, Dan Gordon e Nicholas Bonner, The Game of their Lives nel quale viene esaltato il piccolo grande Davide di Pyongyang, capitale della Corea del Nord e suo luogo di nascita.
Li Chan Myung, Lim Zoong Sun, Sin Yung Kyoo, Ha Jung Won, Oh Yoon Kyung, Im Seung Hwi, Han Bong Zin, Pak Doo Ik, Pak Seung Zin, Kim Bong Hwan, Yang Sung Kook. Era questa la rosa della nazionale coreana il cui allenatore, Myung Rye Hyun pregustava già aria di disfatta quando il 12 luglio ’66 esordì nella Coppa Rimet ’66 contro la Russia di Porkjuan e Malofeev, perdendo 3 a 0. Pak e compagni si mostrarono piccoli piccoli di fronte alla corazzata russa, paese fra l’altro molto amico del governo dell’allora capo Kim Il Sung. Un sconfitta nel quale il subconscio collettivo del club ringraziava l’Urss per l’aiuto nella Guerra di Corea? Può darsi! Sta di fatto che il riscatto arrivò quattro giorni dopo, il 16 luglio, contro il Cile. Alla rete dal dischetto di Marcos rispose ad una manciata di minuti dalla fine della gara Pak Seung Zin. Pak e compagni stavolta prendono fiducia.
L’ultima partita del girone vede l’Italia di Mazzola e Rivera ad aspettare la “dilettantesca” sorpresa asiatica del Mondiale, azzurri non impeccabili fino a quel momento dopo la sconfitta fresca fresca con la Russia. Il 19 luglio all’Ayresome Park di Middlesbrough ecco la leggenda: Italia-Corea del Nord, il giorno in cui i “ridolini”, come li definì il vice di Fabbri, Valcareggi, fecero l’impresa, il giorno in cui Pak Doo-Ik, da uomo qualunque, diventò una gloria nazionale, uno dei giocatori asiatici più importanti di sempre. Dopo 42 minuti di noia mortale per i tifosi italiani, delusi dalla prestazione della squadra, Pak Doo-Ik, di destro appena oltre il limite dell’area avversaria, dopo una dormita della difesa di Bulgarelli & co., scarica un potente tiro che si infila nell’angolo sinistro della porta coperta da un non lucido Albertosi. Il tempo si ferma, sembra quasi che con quel tiro si sia raggiunta la velocità della luce. Una quasar nel buio italiano fu il sorriso e l’esultanza di Pak, incredulo per ciò che aveva appena fatto, un mix di emozioni sull’orlo della schizofrenia emotiva che solo che era in campo poteva provare.
Felicità e rabbia, gloria e stupore, il prima e il dopo di un gesto di grandi proporzioni. Bulgarelli, Mazzola, Rivera e Fabbri diventarono di pietra e ci rimasero in quello stato come circondati da Euriale , Steno e Medusa anche dopo il triplice fischio dell’arbitro che decretò non solo la sconfitta umiliante contro i “ridolini” coreani, ma anche l’umiliante uscita di scena dal Mondiale ’66. La Corea del Nord ora è sulla bocca del mondo. Pak è l’imperatore dei giornali sportivi del giorno successivo e l’eroe della patria. Il suo gol viene visto e rivisto da milioni di persone che fra una ciotola di riso da una parte del mondo, ad un bicchiere di sangria dall’altra, cominciano a conoscere questo centrocampista fino a quel momento sconosciuto sul Panini del calcio. La leggenda coreana di quei giorni estivi si conclude con la sconfitta pesante col Portogallo di Eusebio ai quarti di finale, causando la fine ultima della Coppa Rimet per Pak e soci.
In Corea, al ritorno, furono accolti da una parte del popolo come eroi, dall’altra, soprattutto la parte burocratica e politica del paese, come traditori “borghesi ed imperialisti” provocando numerose punizioni, anche penali, nei confronti della squadra. La leggenda della Corea del Nord e di Pak non smette di spegnersi. Quel gol contro gli azzurri è ancora impresso nelle retini di molti ultra-sessantenni e quel nome carino da pronunciare, di una sonorità irresistibile, Pak Doo-Ik è ancora nella lingua e nelle orecchie dei nostri padri, zii e nonni. Pak, il centrocampista glorioso, dieci anni dopo si ritrovò a guidare la sua stessa maglia, stavolta come tecnico, nelle Olimpiadi del ’76 a Montreal, evento che lo fermò ai quarti di finale con la Polonia dopo una goleada di cinque reti a zero. Poi entrò nell’anonimato fino a ritrovarlo dopo un lungo letargo nel 2008 come tedoforo per le Olimpiadi di Pechino.
C’è chi lo vuole ex tipografo, chi lo vuole ex dentista (leggenda germogliata in Italia dopo l’eliminazione, in realtà una qualifica odontoiatrica la ebbe ma non ne professò mai il mestiere), Pak è piccolo grande uomo, come il Derzu Uzala di Kurosawa. Ma facendo finta, e annegando piacevolmente nel rumor che aleggiava nel ’66, che fosse realmente un dentista, Pak sarebbe più accostabile al’’irriverente pazzia dello Steve Martin de La piccola bottega degli orrori che al serio sadismo del Laurence Olivier de Il maratoneta, estrapolando con la sua umile pinza il molare italiano e cucendosi addosso la leggenda nella fitta rete di gomitoli che è il mondo del calcio.