Dedicato a Te…vez: la caduta dell’impero e dei suoi idoli

Il tritacarne mediatico fa a brandelli tutto: taglia e sminuzza figurine da dare in pasto ai tifosi che si siedono ogni giorno alla mensa dorata dell’immagine. Genio e sregolatezza, un binomio che da sempre appassiona, ma il calore sembra perso e quello che resta spesso sono ragazzi vittime di se stessi. Quello che poteva essere e non è stato, ciò che è ma doveva essere diverso, Alessio Dell’Anna ci racconta la storia di un amore mai nato. Quella con Carlitos Tevez, ancora una volta agli onori della cronaca per fatti che niente hanno a che vedere con un talento cristallino. E’ lo show business, bellezza. Ma non ci deve piacere per forza.
(Artwork by Lovefield)
Vogliono sbattere dentro Carlitos, mi hanno detto. E chissà forse stavolta potrebbe anche meritarselo. È un cagnaccio, lo è sempre stato. Sciolto, se volete, e a me piaceva mica. Brutto, magari anche maleodorante. E di quel pizzetto da capretto della pampa? Che negli ultimi anni si sia dato una spolverata poco cambia. Rasato o coi capelli lunghi resta un delinquente. Correva in macchina dopo che gli avevano sequestrato la patente.
Un altro che fa il pazzo per le strade di Manchester. Ne ho abbastanza io di queste storie di giocatori che strippano in automobile, ragazzini scemi che si spacciano per maggiorenni con la patente, dementi che trasformano macchine di lusso in baracconi da b-movie americano, ne ho abbastanza delle loro vite lussuose e maleducate, delle loro feste casinare, e delle femmine di cristallo che si portano appresso.
Che c’entra poi lui, Carlitos, con tutto questo. Uno nato a Ciudadela, in un posto dove l’acqua del mare si confonde col piscio ai bordi dei marciapiedi. Quale storia racconta la sua faccia? È ancora possibile distinguere quelli dei salotti buoni dai nemici della pubblica sanità? Hai una bella cicatrice sul collo, Carlitos, e qualcuno deve averti dato una randellata sui denti con un ferro pesante.
Non so nemmeno se te li sei fatti ricostruire, magari li esponi fuori come un trofeo. Di cosa poi? Hai costruito il successo sulla tua ignoranza, come i più grandi eroi, che si possono permettere di osare proprio perché non sanno, e non vogliono sapere. E allora quando varcano il limite manco se ne accorgono. Non si agitano come qualcuno che sa di possedere qualcosa che non è suo. Ecco, tu non sai. Sei andato incontro a quello che veniva, fosse fango o rose non importava.
D’inverno si giocava lo stesso, anche se faceva freddo, anche se era festa. D’estate ci si abbeverava sui campi profumati di lavoro umile e merda di vacca, correndo a perdifiato fino quasi a collassare. Ma alla fine non si era stanchi mai. Io invece comincio a essere stanco. Riportami in uno di quei campi bruciati dal sole, che forse ancora me li ricordo. Riportami nei nostri piccoli Fort Apache a calciare un pallone come a lanciare un arcobaleno. A prendersi gioco dei grassoni che facevano i bulli fuori e che in campo si derideva a suon di dribbling.
Il calcio è vita, lo si capisce già a quell’età. O uno racconto epico di drammi e fortune, che è la stessa cosa. Peccato che oggi non vi riconosca più i protagonisti, gli spettatori, e perfino i palcoscenici. Sacrifichiamo tutto sull’altare della modernità, e mettiamo ciò che rimane in un’urna cineraria chiamata Umbro.
Che ci posso fare io però se a me quelli come te non piacciono? Magari avrei potuto cambiare idea se in quel freddo gennaio di un anno fa fossi venuto all’Inter, anziché andare a fare cene luculliane sulla costa di Rio con Galliani per poi comunque ritrovarti con un nulla di fatto. Una figuraccia insomma. Ma siamo stati tutti uno strumento nelle mani dei media, consapevoli e perciò doppiamente marci. Questa socialità incastrata nelle pieghe di ciò che rimane del novecento è terribile. Ci costringe a fare cose che non vogliamo. A pigliarci icone che non desideriamo.
Come sarebbe stato se fossi venuto qui? Avremmo avuto anche noi il nostro bad boy, e forse avrei capito perché oggi vanno tanto di moda. Forse.