Ci sono persone che, in un modo o nell’altro, entrano diritte nel firmamento della storia, lassù in alto, nella galassia di quelli che contano. E basta un niente, basta un momento, un fatto, una frase, un giorno per diventare immortali. A Cesare è servito passare il Rubicone, a Newton una mela cascata sulla sua testa da un albero. A Grzegorz Lato, classe 1950, invece è bastato un mondiale per indossare come un mantello l’ombra del mito. Germania ’74 e quei suoi sette gol che l’hanno reso capocannoniere assoluto in una competizione che aveva squadre celeberrime per la loro forza quali lo squadrone di Muller e Beckenbauer o l’Olanda di Cruyff e Neeskens dimostrano quanto fosse un uomo d’area.
Nacque in Polonia, a Malbork, primissima capitale prussiana che si affaccia quasi sul Mar Baltico, comune fondato dai Teutonici, quelli che il regista Ejzenstein fece cadere nel lago ghiacciato del Ciudi nel suo Aleksandr Nevskij. Ed è proprio il ghiaccio l’elemento principale che caratterizza l’espressione offensiva calcistica di Lato. Freddo, duro come un blocco d’iceberg, tagliente come il vento gelido del’est siberiano, silenzioso come una lince delle nevi. I suoi tiri da fuori area trapassavano le porte avversarie tanto quanto quel maledetto muro che spezzava in due il cuore dell’Europa. A soli 23 anni conquista il campionato polacco con la maglia biancoblù dello Stal Mielec, titolo ripreso anche tre anni dopo, seguito da una finale di Coppa di Polonia persa con lo Slask Wroclaw per 2-0. Ma è il mondiale ’74 in Germania il fulcro della carriera di Grzegorz (nella foto lo vediamo mentre il malcapitato difensore haitiano Arsene Auguste prova a contenerlo) che trascina con le sue sette reti – e grazie anche alle cinque segnature del compagno di squadra Szarmach – la Polonia al terzo posto, battendo il Brasile di Rivelino. Era dalla finale di Cile ’62 che una squadra dell’est Europa non raggiungeva il podio dei Mondiali di Calcio.
Il mondo comincia a guardare curiosa la sorpresa Polonia e, come un Lucio apuleiano, anche questo Lato che con il numero 16 e con quella testa un po’ calva era già sulla bocca di tutti. Dal 1962 al 1980 con la squadra biancoblù realizza più di cento reti, diventando uno degli attaccanti polacchi più prolifici della storia. E’ pero nello spietato mondo delle competizioni europee per club che la squadra di Lato fa fatica ad inserirsi. Nei suoi anni con lo Stal Mielec si ricorda solo una semifinale di Coppa Uefa sfumata ai quarti con l’Amburgo nel 1976. Nei Mondiali Argentina ’78 la Polonia si ferma nel girone B di semifinale vinto dai padroni di casa in un’annata che non ha nulla a che vedere con la bella figura di quattro anni prima. Lato viene ceduto così, dopo essere stato nominato nel ’77 calciatore polacco dell’anno, ai belgi del Lokeren dove milita per un paio d’anni, nella nazione che stava fermentando giovani promesse atletiche che la portarono ad una finale di Coppa Uefa ’76 persa con il Liverpool (la squadra di club fu il Bruges) e ad una degli Europei ’80 persa con la devastante Germania Ovest. Quella con i gialloneri del Lokeren è soltanto una parentesi fugace prima di un altro mondiale, glorioso quanto quello di otto anni prima e cioè Spagna ’82 che vide la nazionale di Lato e del grande Boniek perdere solo in semifinale con la nostra Italia, sì proprio quella di Bearzot e di Rossi e Zoff e vincere ancora il terzo Posto battendo 3-2 la Francia di Platini e Giresse. A 32 anni Lato è già un uomo maturo. Il gelo di Malbork e del Mar del Nord sono un richiamo lontano quando va a sciogliersi le stalattiti sui tacchetti nel caldo afoso messicano con la maglia dell’Atlante, una terra da vacanza del calcio, un degno relax dopo anni di Muro in faccia.
Ginocchia d’acciaio, aria seria solo quando guardava il portiere avversario da lontano una volta preso il pallone, volo rapace come l’aquila con corona e artigli dorati dello stemma polacco, tocco di piede che poteva essere soave quanto brusco come le note di Chopin sui suoi Notturni, Lato è da considerarsi un lupo solitario nel mondo del calcio, un cavaliere errante dell’ Ordensburg Marienburg, un corazzato dell’Ordine Teutonico contro gli invasori, un Plauen moderno, in difesa della patria. Della Polonia.